Perché i
Trouble Tribe non hanno avuto successo? O meglio, per quale ragione la loro fama è stata (troppo) fugace ed effimera?
Notando l’anno di pubblicazione del loro unico
album, molti sarebbero portati a fornire la risposta più prevedibile all’annoso quesito, attribuendo ogni colpa all’imminente ciclone “distruttore” del
grunge, ma ricordiamo anche come nel 1990, dopo la “sbornia” del decennio precedente, l’interesse del pubblico nei confronti del cosiddetto
hair-metal cominciasse ad affievolirsi, affossato dalla stampa specializzata più
modaiola ma anche logorato da un fenomeno musicale ormai congestionato e spesso diventato eccessivamente patinato e abulico.
Difetti che però non riguardano per nulla “
Trouble tribe”, un disco che la
band newyorkese intride di energia e vitalità, sfruttando in maniera assai efficace tutti i sacri dogmi del genere.
È sufficiente un primo contatto con l’opener “
Tattoo” e con la successiva "
Here comes trouble” (brani che beneficiarono di una certa popolarità, anche grazie a MTV) per rendersi conto quanto l’immarcescibile lezione impartita da Kiss, Winger e Dokken fosse stata felicemente assimilata da
Jimmy Driscoll,
Steve Durrell,
Eric Klaastad e
Adam Wacht, in grado attivare a suon di ritmiche pulsanti, chitarre assassine e cori adescanti tutti i gangli sensoriali degli estimatori del settore.
Il suadente tocco
funk n’ blues di “
Gimme something sweet” evoca gli Aerosmith, altri maestri indiscussi del
rock duro statunitense, mentre con “
In the end” e ”
Cold heart” i
Trouble Tribe dimostrano di saper trattare con innata perizia anche le atmosfere crepuscolari e passionali della
power-ballad.
Grintose e accattivanti trame
hard-blues caratterizzano “
Back to the well”, e a chi predilige soluzioni espressive più dissolute e spensierate il quartetto americano dedica “
Boys nite out”, per poi tornare, con “
Red light zone”, “
Devil's kiss” e la maggiormente "radiofonica” “
One by one” a mescolare abilmente vigore, melodia e grandi
refrain, sintonizzandosi su quelle frequenze soniche perfette per vagheggiare di corse sfrenate sulle
highway degli
States.
A completare il programma, oltre agli strumentali “
Tribal beast” (che si riduce ad una serie di effetti “forestal-ferroviari”, in realtà …) e "
F's nightmare”, arriva un eccellente
remake di “
Dear Prudence” dei Beatles, sorta di “ciliegina” su una “torta” musicale molto gustosa e coinvolgente, che anche in tempi di esorbitante stagflazione discografica merita di essere (ri)scoperto senza alcuna riserva.
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