E’ dall’epoca del loro debutto che cerco di diffondere l’idea che i The Quill siano una delle migliori formazioni di hard / heavy rock del panorama internazionale, convinzione accresciuta dopo il secondo album “Silver haze” nel quale la volontaria rinuncia all’apporto delle tastiere ed un sensibile avvicinamento all’intensità dello stoner non avevano minimamente scalfito la classicità del gruppo, anzi l’avevano meglio incanalata.
Il passaggio alla Steamhammer è il giusto premio per la band svedese, che stimolata dall’approdo ad una label prestigiosa, rilascia quello che per me è il loro miglior lavoro e comunque un disco di alta qualità assoluta.
In apertura, la title-track e la seguente “Sell no soul” si rivelano brani rocciosi di grande impatto, più massicci del solito, senz’altro i più duri e metallici mai composti dal gruppo, forse un modo per soddisfare l’abituale pubblico dell’etichetta tedesca. Le caratteristiche peculiari dei Quill sono al loro apice, Ekwall dimostra ancora una volta di essere una delle migliori ugole heavy in circolazione ed a tratti non può non ricordare il grande Plant, pur con i doverosi distinguo, la “mente” Carlsson è in gran forma e crea riffs brillanti per lanciarsi poi con passione nei numerosi assoli, talvolta tirati, talvolta velatamente acidi, e la potente sezione ritmica giustifica appieno le saltuarie collaborazioni con Firebird e Spiritual Beggars.
Proprio Michael Amott, il “guru” della nuova scena scandinava, ricambia il favore offrendo uno stupendo solo in “Shapes of afterlife” che, non solo per questo, risulta uno dei brani migliori del disco. Il quartetto sfrutta al meglio anche le già note influenze Zeppeliniane ed è mirabile l’apertura di “Until earth is bitter gone” con la carezzevole voce di Ekwall solitaria su un sottofondo di tastiera molto retro’, che da’ il via ad un viaggio nello space rock, ed ancora più didascalico il breve sprazzo elettroacustico di “The mighty river” che ci fa ripiombare ai tempi di “Thank you”.
Non vengono accantonati i passaggi molto vicini allo stoner meno derivativo, segno che la band non vuole vivere nella nostalgia del passato, pur essendo di evidente scuola settantiana, e come si può sentire in “Save me” e nella grintosa aggressività di “Overlord” e “Drifting” riesce con la propria classe a tenere a debita distanza l’avanzata delle nuove leve, alle quali manca ancora quel tocco armonico che distingue invece il combo svedese. Un altro top dell’album è il piccolo saggio di rock acido “Hole in my head”, un overdose psych che farebbe invidia ai vecchi Monster Magnet, e la lunga jam spaziale “Virgo”, con un interessante inserto simil-tribale ed un Carlsson scatenato, poderosamente chiude in bellezza questo validissimo lavoro. Sono parecchio ottimista per quanto riguarda i The Quill, se efficacemente supportati hanno sul loro arco la freccia di un grande capolavoro, che forse non è ancora “Voodoo caravan” ma che da questo prenderà molti e fondamentali spunti. Intanto mi gusto questo cd che, salvo sorprese, resterà per me uno dei migliori dell’annata.
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