“[…] Non abbiamo mai suonato meglio di quanto facciamo in quest’album […]”
Quante volte, nelle dichiarazioni promozionali a supporto di una nuova uscita discografica, abbiamo letto o sentito qualcosa di simile … praticamente sempre, e dubitare di tali affermazioni è diventato altrettanto comune.
Stavolta, però, siamo di fronte ad uno di quei rari casi in cui queste parole, nello specifico attribuite al batterista
Laust Sonne, potrebbero avere un solido fondo di verità, rendendo “
Speed of darkness” un disco che i
fans dei
D-A-D ameranno tentare di “consumare” a forza di ascolti reiterati.
Eh già, perché i quarant’anni di carriera sembrano non “pesare” affatto sulle spalle dei danesi e se avevate apprezzato il precedente (eccellente) “
A Prayer for the loud” sono certo amerete anche questa raccolta di ben quattordici canzoni (selezionate da una collezione di quaranta!) che testimoniano la grande vitalità espressiva di una
band che forse non ha ottenuto nella sua corposa parabola artistica la considerazione che in realtà meritava.
Suonare
hard-rock, ostentando un proprio riconoscibile
trademark e riuscendo al contempo nel corso degli anni a non fossilizzarsi in un’unica formula stilistica, è un’impresa riuscita a pochi, così come non sono molte le formazioni “esperte” capaci di proporsi ai loro sostenitori con la
verve e la vigoria degli esordi.
Come sempre accade in situazioni analoghe, eguagliare l’impatto di “
No fuel left for the pilgrims” e “
Riskin it all” è piuttosto “complicato”, ma sono anche convinto che, come del resto accaduto al suo predecessore, “
Speed of darkness” non vi farà rimpiangere (troppo, almeno …) i gloriosi tempi andati.
Insomma, in questi solchi troverete tutte le peculiarità tipiche dei
D-A-D (comprese quindi le atmosfere
southern n’ western), declinate attraverso un pizzico di “attualizzazione” in grado di rendere parecchi brani dell’opera idonei pure al concetto di
radio-rock contemporaneo, conservando uno spiccato equilibrio e, soprattutto, un’esemplare capacità comunicativa.
L’inizio è tuttavia piuttosto “classico”, con il
groove ruvido e avvolgente di “
God prays to man”, ma lungo la scaletta troverete anche esplorazioni sonore al confine dello
stoner come "
1st, 2nd & 3rd” e “
Strange terrain”, una delizia crepuscolare denominata “
The ghost” e la passionalità di “
Head over heels” (con qualcosa dei RHCP nell’impasto …) e “
Crazy wings”, brani che dimostrano il dominio di una gamma espressiva ampia e variegata.
Un riscontro avvalorato altresì dalla sinuosa e catartica
title-track, con il suo coro catalizzante, dalle nervose pulsazioni
blues di “
In my hands” (una “roba” che potrebbe piacere pure agli estimatori di
Jack White) e dal clima Aerosmith-
esco di “
Live by fire” e “
Keep that MF down”, il tutto gestito ad arte dalla voce di J
esper Binzer, una sorta di fusione tra
Steven Tyler e
Brad Sinsel, capace d’interpretazioni sempre coinvolgenti e focalizzate.
Le scorie
punk-eggianti di “
Everything is gone now” e “
Waiting is the way”, l’ombrosa e strisciante “
Automatic survival” e la ballata fumosa e malinconica "
I’m still here” aggiungono altre buone vibrazioni ad un crogiolo musicale pieno di energia positiva ed adescante, di un tipo che non ci stancheremo mai di accogliere con entusiasmo ed euforia.