Congestionato, oltre che da un flusso incessante di novità, da “riscoperte”, “ritorni” e “riesumazioni” varie, il
rockrama attuale rischia davvero d’implodere su sé stesso, favorito da una “crisi creativa” che lo affligge già da parecchio.
Ciò non toglie, tuttavia, che non si debba accogliere con favore la ricomparsa di gruppi musicali di valore che ai tempi della loro formazione, per varie ragioni, non arrivarono all’incisione discografica, e che “rinfrancati” dall’impeto
revivalistico della “scena”, tentano un tardivo ma legittimo recupero del tempo perduto.
Come anticipato, raccapezzarsi in mezzo a questo
bailamme non è semplice, ma mi sento di suggerire ai nostri lettori un pronto contatto con questi
Neptune, ieri orgogliosi rappresentanti svedesi della categoria “forgotten heroes” e oggi riaffiorati dall’affollato baratro dell’oblio.
Nati all’inizio degli
eighties, i nostri hanno dovuto aspettare il 2018 per vedere pubblicati i loro
demo (raccolti in “
Land of Northern”) per poi, forti di un certo interesse da parte del pubblico di riferimento, debuttare in maniera effettiva nel 2020 con ““
Northern steel”, grazie alla Melodic Passion Records.
Passano altri quattro anni ed ecco che ritroviamo gli esperti scandinavi alle prese con il nuovo “
End of time”, stavolta patrocinato dalla prestigiosa
Pride & Joy Music, ad ulteriore attestazione di un segno tangibile della tanto agognata riabilitazione artistica.
E allora diciamo che il disco è piuttosto gradevole, che in tempi di diffuso
amarcord non suona nemmeno eccessivamente “datato” e che mescola l’afflato evocativo di Judas Priest e Heavy Load (soprattutto i primi …) con l’
hard rock tastieristico di Uriah Heep e Deep Purple, senza dimenticare di condire il tutto con barlumi dello stile pomposo di Magnum, Saracen e di certi Whitespirit.
Come si può facilmente rilevare, tutta “roba” non esattamente “innovativa”, eppure affrontata dai nostri con parecchia disinvoltura e una certa “freschezza” espressiva, per nulla scontata per una
band dalle radici così lontane nel tempo.
Si comincia con la melodia incalzante di “
Metal hearts”, a cui le tastiere e il ritornello forniscono opportune dosi di orecchiabilità, per poi proseguire con la scattante "
Brightest steel”, una sorta d’interpolazione tra cromature soniche
yankee e solennità
NWOBHM, seguita da una
title-track che invece si affida completamente alle brume dell’
heavy più melodrammatico, con il
singer Row Alex che impreziosisce la sua eccellente prova con intriganti sfumature
Tate-iane.
Il clima fascinoso e gotico di “
Revenge” sembra voler mescolare Judas Priest e Scorpions, mentre "
Motherland” accentua ulteriormente la componente epica ed enfatica del
sound di un gruppo che però ancora una volta riesce a non finire affossato dai
cliché grazie a piccole peculiarità nella sferzante costruzione armonica.
“
Sun goes down”, con la sua miscela di Motley Crue / Europe / Night Flight Orchestra, è facilmente eleggibile tra i brani più singolari (e “divisivi”, probabilmente, ma è anche uno dei miei preferiti …) del programma, appellativo che non si addice né a "
Nepturion”, piuttosto “classica” nelle sue cadenze caliginose, e né a “
Power”, un gradevole omaggio alle tipiche sferragliate
Priestiane.
L’
anthem adescante “
Highlands” e la ballata sinfonica e mistica “
Northern winds” aggiungono altro materiale al dualismo tra velleità melodiche ed “estetica guerriera” che caratterizza un po’ tutto “
End of time”, un disco che consente ai
Neptune di reclamare un “posticino” in un panorama musicale contemporaneo in cui non sfigurano affatto, neanche al cospetto di tante (spesso fantomatiche) “new sensation”.