In una scena musicale dove la creatività è ormai una vera rarità, è molto frequente incontrare
band che decidono di affidarsi senza troppe riserve alla
Storia del Rock.
A tali formazioni si richiede che la familiarità della proposta non alimenti soltanto sterili nostalgie, alla lunga effimere e labili.
I
Daytona appartengono senza dubbio alcuno alla categoria dei “conservatori” dell’
AOR, ma aggiungiamo che il loro “
Garder la flamme” (“
Mantenere la fiamma viva”, in francese … in pratica una dichiarazione d’intenti …) è quanto di meglio gli estimatori di FM, Foreigner, Boulevard, Survivor e Giant possano trovare nel
rockrama contemporaneo, almeno se non si vuole, per l’ennesima volta, rispolverare la preziosa discografia dei suddetti venerabili del settore.
Da musicisti che vantano esperienze professionali in Osukaru, Air Raid, Eclipse, Miss Behaviour e TimeScape, è abbastanza scontato attendersi perizia e vocazione specifica, mentre un po’ meno “banale” è rimarcare quanto queste qualità s’intersechino in maniera incisiva con un
songwriting chiaramente debitore dei “classici” e ciononostante molto coinvolgente, sviluppato attraverso quella tipologia d’ispirazione ed intelligenza che rende l’inevitabile
amarcord qualcosa di artisticamente credibile, autentico e soprattutto piuttosto avvincente e durevole.
Trovare un brano debole nella scaletta di “
Garder la flamme” è francamente assai complicato … grazie alla vocalità pastosa ed espressiva di
Fredrik Werner (plasmata sugli insegnamenti dei
Maestri Gramm,
Bolton e
Overland …), alla sensibilità dei musicisti e ad un innato buongusto per queste sonorità, vi troverete fin dalla scintillante
opener “
Welcome to the real world” catapultati nel cuore degli
eighties, dove le melodie avvolgevano l’astante e finivano per saturare l’etere, conquistando le classifiche e le colonne sonore dei
blockbuster cinematografici.
Come anticipato, l’effetto emozionale non risulta per nulla precario o parodistico, ed è sufficiente proseguire nell’ascolto di “
Kelly” (con il suo clima raffinato e intrigante), della malinconica “
Through the storm” oppure ancora di “
Downtown” (in cui il
sax contribuisce a illuminare di suggestive luci al
neon lo
skyline sonoro del pezzo), per prolungare un viaggio a ritroso nel tempo davvero emozionante.
Agli animi più passionali sono poi dedicate “
Time won’t wait” e “
Where did we lose the love”, complessivamente forse un po’ troppo prevedibili, mentre tocca alle pulsazioni di “
Looks like rain”, al
groove “sintetico” di “
Town of many faces” e al
pathos che intride “
Slave to the rhythm” (seducente, ancora una volta, l’apporto del
sax) e la
title-track dell’albo, completare un’efficace rievocazione del passato, non fastidiosamente agiografica e per questo meritevole di grande considerazione da parte di tutti gli estimatori del genere.
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