Esce a distanza di quattro anni e due giorni (gennaio evidentemente è un mese che piace molto ai
Labyrinth) il successore di "
Welcome to the Absurd Circus", ovvero "
In the Vanishing Echoes of Goodbye", decimo album in studio per la band di
Olaf Thorsen ed
Andrea Cantarelli.
Una versione breve della recensione, che sottopongo per tutti coloro i quali abbiano ormai la soglia dell'attenzione inferiore ai 7 secondi, come Tik Tok ci insegna, potrebbe essere questa:
"
L'unica cosa non bella di "Welcome to the Absurd Circus" era la copertina, qui nemmeno questo, è tutto perfetto".
Volendo approfondire, pur trovando a livello qualitativo equiparabili gli ultimi tre dischi (questo compreso), tutti con una media positiva imbarazzante, i primi ascolti di "In the Vanishing Echoes of Goodbye" sono stati per me decisamente più gustosi ed interessanti, essenzialmente a causa di una maggiore energia, rabbia, "durezza" dei brani proposti ed anche un sound più aggressivo e squisitamente "metal", che peraltro già immagino in sede live davvero tirati e da headbanging furioso.
Per carità, stiam sempre parlando di una delle band più eleganti e raffinate che il panorama metal italico abbia mai partorito, ma è un piacere constatare che i Labyrinth siano sempre estremamente a proprio agio quando c'è da menare, e non mi riferisco solamente alla velocità, sebbene la splendida "
Accept the Changes" - a mio avviso uno dei pezzi più belli della loro intera carriera - parli da sola, cesellata da assoli incredibili e da riff portanti che starebbero benissimo con adeguata produzione su un thrash d'annata che, dopo tanti anni, pensavo non interessassero più ai "ragazzi" ormai splendidi cinquantenni.
Talmente entusiasmato da brani del genere che ammetto di aver inizialmente sorvolato peccando di superficialità su brani più rilassati come "
Out of Place", seppur risvegliato a mo' di elettroshock dalle brevi ma illuminanti contaminazioni elettroniche alla "
No Limits" da parte di
Smirnoff che mi augurerei di ascoltare sempre più presenti ed invadenti, mentre già si riparte a mazzetta con la successiva "
At the Rainbow's End", con la premiata ditta
Peruzzi/Mazzucconi che in fase di sezione ritmica garantiscono una solidità impressionante.
Con "
The Right Side of This World" siamo giunti solamente alla metà del disco, che si dipana sull'oretta scarsa di durata come di loro consuetudine, e siamo di nuovo di fronte ad una possibile candidata per la canzone migliore del disco, refrain ed assoli irresistibili e, quello che abbiamo omesso sin'ora, la consueta prestazione maiuscola di Roberto Tiranti dietro al microfono, in perfetta comfort zone sia nei passaggi più delicati sia in quelli più urlati, disegnando linee vocali di subitanea presa eppure così efficaci nel tempo.
La seconda parte di "In the Vanishing Echoes of Goodbye" non è da meno, alternando brani più soffusi a la' "
The Healing", che comunque a metà cambia marcia e "
To the Son I Never Had", ad altri nuovamente "thrashosi" come "
Heading for Nowhere" che senza dubbio è una delle novità più gustose e curiose proposte dai Labyrinth negli ultimi anni e la conclusiva e se vogliamo intricata e bizzarra "
Inhuman Race" che chiude alla grande un disco a mio avviso più interessante e stimolante da ascoltare, sempre in linea con la loro qualità ed il loro stile nel songwriting.
Il tempo passa inesorabile e mi pare ieri di aver conosciuto i "ragazzi" ai tempi di "
Return to Heaven Denied" ma i Labyrinth dopo tutti questi anni rimangono un'eccellenza assoluta del panorama mondiale Musicale, con la M maiuscola.
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