Che bello lo Speed/Thrash canadese, vero? Band come
Anvil,
Exciter, fino a giungere ai funambolici
Annihilator o ai visionari
Voivod, hanno scritto alcune delle pagine più belle del Metal tutto e nonostante il passare delle decadi, il Canada continua ad avere un suo peso specifico nella galassia del Metal e nello Speed/Thrash in particolare.
Anche i
Sacrifice, band di seconda fascia, ha dato il suo contributo con la prima tripletta discografica, con i primi due lavori così feroci da sfiorare il Death Metal, poi la storia è quella tipica di molte band di questo tipo: numeri non esaltanti, discussioni, scioglimenti, uscita di album discutibili e un’attività discontinua.
“
Volume Six” è proprio il sesto album del quartetto canadese ed esce a soli
quindici anni di distanza dal quinto lavoro in studio e lo fa in un periodo nel quale mai come ora il mercato discografico è così affollato e sovraccarico di uscite, rischiando così di perdersi in una massa informe di uscite poco personali e amorfi.
La vera domanda da porsi è: ha senso un nuovo album dei
Sacrifice nel 2025?
Una domanda che potrebbe apparire scontata, ma che così non è visto come molte vecchie glorie sono oggettivamente invecchiate male nel corso degli anni, non essendo riuscite a stare al passo con i tempi, piuttosto che perdendo la propria personalità nell’intento di rincorrere questo o quel trend del momento.
La risposta a tal domanda è molto banalmente “sì, ha senso”.
Il perché è presto detto, perché si tratta di un bel disco.
E grazie al cazzo direte voi: i
Sacrifice non sono mai stati un gruppo che ha puntato sulla fantasia, anzi, soprattutto agli inizi sembravano più un gruppo brasiliano che non canadese, seppur al contrario dei cugini carioca avessero già delle produzioni di un certo livello che quindi li avvicinavano ai thrashers tedeschi.
Anche questo sesto album non è un lavoro chissà quanto fantasioso, anzi è piuttosto semplice, ma ben scritto ed eseguito: come ai tempi di “
Soldiers Of Misfortune”(1990) ci si è ricordati che una linea melodica anche catchy può far solo che bene, dando qualche piccola sfumatura in più. Il telaio ritmico è decisamente più controllato oltre ad essere un pizzico più fantasioso che in passato e il lavoro di chitarra è molto buono, sia in fase ritmica che solista, con in aggiunta la tipica voce arcigna a cesellare il tutto.
Al contrario di nome molto più blasonati che ormai non sanno più scrivere musica di livello (“
72 Seasons” sto parlando proprio di te…), questi canadesi cementificano il loro status di cult band e lo fanno con quello che molto probabilmente è il loro lavoro migliore.
Finché i “vecchietti” continueranno a fare uscite di questo livello, la pensione direi che è rimandata, giustamente.
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