A
Mikael Erlandsson piacciono i Beatles e i Queen.
Vogliamo fargliene una colpa? Non credo, del resto sono due icone immarcescibili del
rock che hanno influenzato e continuano a influenzare infinità di musicisti.
Ora, alla luce di questa “fondamentale” informazione, non dovrebbe sorprendere più di tanto che il suo sesto lavoro solista si rivolga in maniera palese proprio alle suddette leggende della musica.
Poi però,
Erlandsson è anche noto per essere una delle voci più autorevoli del
rock melodico scandinavo (Last Autumns Dream e Autumns Child, innanzi tutto, da aggiungere a svariate collaborazioni) ed ecco che “
The second 1” (titolo che rimanda direttamente a “
The 1”, il suo primo
solo album) si rivela una gradevole celebrazione dei due monumenti britannici (più il primo del secondo, in realtà …), realizzata da un cantante che conosce altresì i “segreti” dell’
AOR più
poppettoso e spensierato.
Una “roba”, insomma, da non consigliare a chi ricerca sonorità grintose e inquiete, e che invece possiede tutte le caratteristiche necessarie ad attrarre i cultori della spigliatezza e della “leggerezza”, attributi declinati attraverso una manciata di canzoni piuttosto “radiofoniche”, intendendo il termine con un’accezione adatta pure all’etere contemporaneo.
Prendete “
Evil eye” … se i gli Oasis hanno conquistato così tanti
fans sfruttando un oculato
mélange tra melodie orecchiabili e barlumi psichedelici, perché mai un brano che sfrutta con acume le medesime prerogative non dovrebbe ottenere risultati analoghi?
Beh, se escludiamo il “trascurabile” fatto che
Mikael Erlandsson è un personaggio meno
cool dei fratelli
Gallagher, altre plausibili motivazioni non se ne vedono.
Anche la solare “
Call my name” si rivolge apertamente ai
sixties, mentre con “
Ricochet” il clima sonoro dell’opera si trasferisce dalle parti della metà degli anni ottanta, quando un
ragazzone del New Jersey di nome
John Francis Bongiovi Jr. con alcuni amici dominava le classifiche di mezzo mondo.
Sulla scia dell’affabile e caleidoscopico
sound dei
Fab Four si collocano pure le delicate ballate “
Paper moon” e “
C'est la vie”, e le briose “
Circus” e “
Put some love In the world”, tracce che sfruttano schemi stilistici molto popolari con un certo equilibrio, apparendo piacevolmente adescanti.
Gli influssi latini di “
Flamenco in the snow” e “
Bug” (brano che potrebbe tranquillamente appartenere al repertorio di una
boy-band …) accentuano ulteriormente le velleità “mainstream” di “
The second 1” e sebbene il tutto sia gestito con la classe e le abilità tecniche di un eccellente interprete, sinceramente preferisco quando tali prerogative vengono messe al servizio di un
songwriting maggiormente vivace, come accade nelle brillanti stratificazioni armoniche di “
Knocking on a broken heart” e nelle cadenze a
nthemiche e vagamente Styx-
iane di “
Geronimo”, in cui la sintesi tra
pop e
rock appare maggiormente curata e, soprattutto, “matura”.
Pur potenzialmente idoneo alla conquista di un pubblico piuttosto ampio ed eterogeneo, dubito fortemente che “
The second 1” possa essere benaccolto al di fuori della cerchia dei fedeli (e “facoltosi”, vista l’iperattività del loro beniamino) estimatori di
Mikael Erlandsson, gli unici che verosimilmente potranno ammirarne le spiccate doti espressive anche in un contesto così “commerciale” … ciò detto, spero vivamente di essere smentito, accogliendo la circostanza come un incoraggiante segno che si è ancora in grado di apprezzare diffusamente la “musica leggera” di qualità.
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