Mi piace tutto dei
Days Of Jupiter di “
The world was never enough” … il nome e il
logo della
band, l’
artwork del disco e, soprattutto, l’approccio artistico degli svedesi, capaci di mescolare “modernità” e “tradizione” dell’
hard n’ heavy con uno spiccato buongusto compositivo e una capacità espressiva realmente coinvolgente.
L’aspetto “increscioso” di quanto appena affermato è che finora, a differenza del popolo di
Spotify (che a quanto pare li ha gratificati con milioni di
streaming), non avevo mai sentito parlare di un gruppo in attività dal 2010 e artefice di altri quattro
album.
Ora, dopo un’ammissione di “colpa” che probabilmente mi costringerà a rivedere (almeno in parte …) il mio giudizio sull’utilità dei servizi di riproduzione digitale della musica, posso concentrarmi con maggiore serenità su un’opera che “spacca di brutto” (aiuto! … un attacco del
mood giovanilistico tipico dei
Boomer e della
Generazione X …
ok, è passato …), aggredisce i sensi e li soggioga attraverso un’oculata e articolata mistura di tensione e potenza, elaborata con personalità lungo le coordinare sonore di “gente” come Disturbed, Staind e Godsmack, a cui aggiungere qualcosa dei conterranei Evergrey.
Plasmata dalle ispirate interpretazioni di
Jan Hilli (una sorta d’interpolazione timbrica tra
David Draiman,
Russell Allen e
Tom S. Englund), la sostanza sonora prodotta dai
Days Of Jupiter appare al tempo stesso avvolgente e impetuosa, alimentata com’è tanto da melodie affabili quanto da
groove poderosi.
Nulla degno di poter essere definito “rivoluzionario”, si potrà legittimamente affermare, dal momento che affonda le proprie radici nella titolata scuola dell’
alternative, ma che tuttavia nelle mani del suddetto
vocalist e dei suoi eccellenti compagni d’avventura, suona parecchio “fresco” e comunque mai artificioso, ben lontano dalla sterile riproposizione di formule (arci)note.
Un rilievo evidente fin dal brano d’apertura “
Original sin”, un vortice d’inquietudine
metallica piuttosto “impressionante”, e poi confermato da una
title-track che striscia subdola nei gangli sensoriali e attraverso flussi imponenti di oscura e conturbante energia emozionale finisce per “scuoterli” a dovere.
“
Machine” è un’altra bella “botta” sospesa tra visionaria drammaturgia e ruggente catarsi, e a ulteriore testimonianza che siamo di fronte alla prova di artisti di spessore arriva “
Desolation”, una sofferta ballata elettro-acustica che non può proprio lasciare indifferenti.
Le pulsazioni
dark-eggianti e
catchy di “
The fix” e “
My heaven my hell”, così come le aperture enfatiche (vagamente Muse-
iane) di "
Parazite”, svelano ancora meglio le potenzialità “commerciali” degli scandinavi, molto abili, poi, a gestire il
pathos viscerale tipico del genere con intelligenza e classe, intridendo “
Denial”, la martellante e cangiante “
Ignite” e la possente “
Invincible” di un incisivo e calibrato
mélange di melodia e livore.
In conclusione, mentre mi riprometto di recuperare quanto prima la “storia” pregressa dei
Days Of Jupiter, inserirli, grazie a questo “
The world was never enough”, nel novero delle formazioni più interessanti del settore, diventa un vincolo a cui mi sottometto con grande piacere, affidandolo con ferma convinzione alle valutazioni dei nostri lettori.