Il
rock può ancora essere appetibile (anche) per le “nuove generazioni”?
Io credo di sì, e sembrano esserne convinti anche i
Juliet’s Not Dead, gruppo britannico che al secondo
full-length “rischia” seriamente di diventare (se non lo è già …) la
next big thing della “scena”.
Un “pericolo” che si concretizza attraverso una miscela abbastanza sagace di tanta “roba”, tutta, magari in epoche diverse, piuttosto avvezza al successo ad ampio spettro, obiettivo a cui la
band punta senza timori o imbarazzi di sorta.
“
The world is ours” è infatti un
mix tra
pop-rock, alternative e
post-grunge, un po’ come se, partendo da un
background edificato sugli intendimenti di Bon Jovi e Def Leppard, si volesse far convivere in un’unica entità espressiva anche le istanze di Chevelle, Biffy Clyro, My Chemical Romance e Coldplay (
ehi, fermi, dove andate!).
Per fare in modo che si tratti di una coabitazione felice sono necessarie cultura, competenze tecnico / interpretative e ispirazione compositiva e devo dire che fin dal primo ascolto dell’albo i nostri dimostrano di saper spaziare piuttosto efficacemente tra componente malinconica ed emozionale e trame più corpose ed energiche, attraverso una strategia sonora che, sebbene a tratti appaia persino un po’ troppo “studiata”, offre ampie possibilità di affermazione.
La struttura armonica adescante ed enfatica di “
Sinner or saint” potrebbe tranquillamente conquistare i seguaci della “scuola melodica” scandinava più recente, così come “
Thrillseekers” e “
Notorious”, invece, sembrano destinate a chi è affascinato dall’unione tra ritmiche incalzanti,
riff poderosi e linee vocali filtrate e adulanti.
La melodia vaporosa e oscillante di “
Open fire”, sublimata da un
refrain “a presa rapida”, e le emanazioni passionali ed elegiache di “
Battle scarred” e "
Passing ships” sono veramente perfette per le programmazioni “radiofoniche” contemporanee, mentre con "
Double life” e "
Last one standing” i
Juliet’s Not Dead aggiungono all’impasto sonico appena un pizzico di attitudine
pop-punk, arricchendo di altri due momenti parecchio ammalianti la scaletta del disco.
All’appello mancano ancora la vivace “
King and queen” e, soprattutto, “
Capsize”, una ballata in “crescendo” emotivo che completa il campionario di potenziali
hit di “
The world is ours”.
In mezzo a tanta musica “moderna” che si rivolge ad altre formule stilistiche, la sopravvivenza del
rock n’ roll (dato inutilmente per spacciato innumerevoli volte …), inteso come fenomeno di “massa”, passa da formazioni “giovani” capaci di comunicare con i propri simili attingendo alla “storia” del genere con freschezza, urgenza e la giusta dose di “ruffianeria” … i
Juliet’s Not Dead, pur in cerca di una spiccata identità artistica, hanno i mezzi per contribuire alla causa.
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