La Norvegia e la
Apollon Records sono ancora una volta le catalizzatrici di organismi musicali tutt’altro che “allineati”, capaci di coniugare diverse formule stilistiche in maniera creativa, senza aver paura di rischiare e apparire “strani” in un
rockrama che invece troppo spesso privilegia modalità espressive di comodo o quantomeno più “rassicuranti”.
Già dal titolo del suo albo di debutto, degno della cinematografia della
Wertmüller, il progetto
Eie non potrà di certo essere tacciato di “banalità”, e a conferma di tale considerazione arriva una raccolta di dodici canzoni strutturate attraverso una continua successione di suggestioni sonore, sviluppata all’interno di un calderone fatto di
dark-rock,
psichedelia,
grunge,
punk e
noise.
Pilotato dalla personalità mutevole di
Emilie Eie, “
My tongue is stuck to the roof of my mouth and that is all I can think about” (frase estrapolata dal testo di “
We speak, we bleed”, un resoconto tragico / romantico sull'ansia e su come questa possa manifestarsi fisicamente nell’individuo …) si rivela un autentico centrifugato di spasmi, rumori, disappunto ed inquietudini, e sebbene non sia facile in tale contesto individuare plausibili riferimenti comparativi da fornire al lettore, mi azzardo a supporre che Siouxsie and the Banshees, The Breeders, Sonic Youth e Hole abbiano avuto in qualche modo un ruolo significativo nella formazione artistica della cantante e compositrice di Stavanger.
In ogni caso si tratta di un approccio tutt’altro che “conservatore” ad una materia che sa produrre fiotti di energia strisciante, liquida e sinistra (“
Faux fur”, “
Ragdoll", "
Forget your name”, "
The struggle“), fosche e fluorescenti languidezze ("
Pin me down”) e addirittura scatti
psych-rap ("
Hellcat”, “
Because”), il tutto legato dal filo rosso di testi “militanti”, che parlano di abitudini malsane e distruttive, di diritti inalienabili, criticano i privilegi del potere e sfidano la cosiddetta “cultura dello stupro”.
Un messaggio che si propaga sfruttando anche la soluzione della ballata gotica (“
Never home”, con l’ospite
Oliver Hohlbrugger in versione
Nick Cave …), acide scansioni
punk n’ roll (“
Get it?”), collisioni melodiose e frastagliate (“
I know I”) e avvolgenti itinerari lisergici (“
We speak, we bleed”, con tanto di
theremin), a ulteriore dimostrazione di un’ispirazione libera e incondizionata, magari dai contorni ancora un po’ troppo disomogenei, ma piuttosto intrigante.
“
My tongue is stuck to the roof of my mouth and that is all I can think about” induce a scommettere sulle possibilità di futuro affinamento delle “spiazzanti” peculiarità di
Eie, un’entità artistica visionaria e parecchio promettente.
Non è ancora stato scritto nessun commento per quest'album! Vuoi essere il primo?