Quella di cui vado brevemente a dissertare, è una delle autoproduzioni più interessanti che mi sia capitato di ascoltare in questi ultimi tempi, nell’ambito del prog-metal ad ampio spettro.
L’artefice principale dell’opera si chiama Davide Fontanel, il quale coagula attorno a sé un competente ensamble di ottimi musicisti, scelti per mettere in pratica questo misterioso concept “marinaresco” scaturito dalle sue sinapsi cerebrali.
La trama, pur senza essere particolarmente originale, emana comunque un certo fascino, praticamente inevitabile quando al suo interno sono presenti un mercantile britannico, il suo carico d’oro, pirati, equipaggi fantasma e oscure presenze.
Come già accennato, musicalmente siamo dalle parti di un heavy metal dal taglio epico che s’inserisce su pregevoli strutture di progressive rock, creando un piacevolissimo melange che punta sulla melodia enfatica e sulla “forma canzone”, piuttosto che, come spesso accade in quest’ambito stilistico, tentare di sorprendere l’astante con esibizioni ad impossibile coefficiente tecnico o esasperazioni nelle variazioni ritmiche.
Il punto di forza del progetto risiede nell’abilità del songwriting, avvincente e trascinante in maniera pressoché assidua, il quale poco avrebbe potuto, come appare ovvio, se non supportato da una preparazione esecutiva di grado superiore, che vede nell’uso della doppia voce maschile/femminile (responsabilità di Romolo Del Franco ed Emanuela Savio) e nel gusto tastieristico e chitarristico dello stesso Fontanel, come i responsabili primari di un risultato così consistente e convincente.
Come si conviene ad un album “concettuale”, ogni brano è il frammento di una sceneggiatura complessiva, che come tale dovrebbe essere fruita e giudicata, evitando la nomina di singole preferenze, tuttavia vista la natura ancora “sotterranea” del Cd, ritengo sia corretto estrapolare la tempra di “Storm of soul”, la magnifica leggiadria prog di “Pirates”, l’intensità incontenibile di “The master of the night”, la raffinatezza elettro-acustica di “The morning of a new day” e la capacità coinvolgente di “Welcome to the hell”, indicandoli come i momenti che a mio modo di “vedere” consolidano al meglio le doti dei Quill Pen, in un lavoro che ha in ogni caso veramente pochissime debolezze degne di menzione.
Tra queste, qualche minima imprecisione negli arrangiamenti vocali e una registrazione, benché di buon livello, non completamente all’altezza del valore artistico esibito, che fatalmente conduce l’ascoltatore ad immaginare cosa avrebbe potuto essere “Speed child” con una produzione e un mixaggio maggiormente professionali.
Nonostante una certa “ortodossia” di base, non c’è nulla di “prefabbricato” nella musica dei Quill Pen, la quale merita grande rispetto e sostegno … un’altra preziosa gemma, appena un po’ “grezza”, emersa dalle ricche “miniere” di casa nostra.
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