I
Flower Kings rimangono fedeli a sé stessi con il loro rock progressivo articolato e solare, dove le acrobazie strumentali dei musicisti servono a controbilanciare linee melodiche semplici ma efficaci (
“We Claim The Moon”).
Sorprendono certi richiami alla tradizione musicale americana (
“The Elder”, “Considerations”), a differenza di tanti - forse troppi - evidenti omaggi agli Yes degli anni d’oro (è il caso di
“Burning Both Edges” o di
“The Phoenix”, una
“And You And I” per le nuove generazioni), ai Genesis post-Gabriel (
“How Can You Leave Us Now”, “World Spinning”) o ai Pink Floyd post-Waters (
“Walls Of Shame”).
“The Rubble” spicca per il groove sinistro, mentre la breve ed esplosiva
“Kaiser Razor” ha qualcosa dei Toto più spavaldi, in contrasto con le bucoliche
“The Promise” e
“Love Is”, impreziosite dalla fisarmonica di
Aliaksandr Yasinski.
Difficile, dopo tutti questi anni, chiedere di più a
Roine Stolt e soci.
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