Da devoto estimatore della prima ora degli
Inglorious accolgo il loro ritorno (erano fermi dal 2022) alle attività artistiche con enorme trepidazione e curiosità, nonché con quel senso di compiacimento che si destina ai gruppi che non “potevano” proprio abbandonare la scena musicale.
Solo una diffusa epidemia di otopatologie invalidanti riservata alla comunità
rockofila le avrebbe impedito di accorgersi della qualità superiore della
band britannica, ed escludendo quindi che la “pausa di riflessione” sia stata causata da scarso interesse nei suoi confronti, sono veramente felice di apprendere che ogni altro impedimento è stato superato, consentendoci di ascoltare questo nuovo “
V”.
Difficoltà che hanno portato gli
Inglorious ad un rimaneggiamento nella
line-up, con il rientro nei ranghi di
Colin Parkinson (co-fondatore del gruppo) e il reclutamento di
Richard Shaw (Cradle Of Filth, NG26, Emperor Chung, Plague Of Angels) e
Henry Rogers (Touchstone, Mostly Autumn, Mia Klose, and Mark Kelly’s Marathon), ad affiancare la voce
monstre di
Nathan James, se possibile ancora migliorata nelle sue già straordinarie facoltà espressive.
E così arriviamo ai contenuti di un disco che conferma per i nostri il ruolo di assoluti fuoriclasse dell’
hard-rock contemporaneo, di quelli che affidandosi a suoni “codificati” sono poi in grado di esaltarli grazie ad una potente e naturale forma di espressività propria.
Un misto di Led Zeppelin, Whitesnake e Soundgarden, che “sfida” sul loro terreno preferito i migliori Alter Bridge e Black Stone Cherry, e ritroviamo alimentato da un’energia pulsante e intensa, per certi versi “sorprendente” anche per chi conosce bene la favolosa parabola discografica dei suoi artefici.
Insomma, evidentemente il preoccupante
break è stato in qualche modo proficuo se poi l’albo del ritorno si presenta all’apparato uditivo dell’astante con una “bomba sonora” chiamata “
Testify”, che sembra il turgido e corroborante frutto di una
jam-session tra Audioslave e Whitesnake.
Un inizio avvincente che diventa elettrizzante grazie alle aitanti pulsazioni melodiche di “
Eat you alive” e alla sferragliante cupezza di “
Devil inside”, capace di “aprirsi” nel ritornello, conferendo al brano una struttura armonica in chiaroscuro di grande suggestione.
“
Say what you wanna say” nella sua irruenza
punk-eggiante incorpora qualcosa dei Warrior Soul all’impasto sonico, mentre con la delizia elettro-acustica “
Believe” e la poderosa “
End of the road” gli
Inglorious attestano che l’appellativo di “eredi” dei Whitesnake non è per nulla iperbolico.
Dinamismo e forza d’urto si combinano ad arte nella sussultante e strisciante “
Stand”, dove il basso di
Parkinson diventa vero co-protagonista (la
star della situazione è sempre
James …), per poi lasciare il posto ad un approccio più “vaporoso” in “
In your eyes”, ammaliante fin dal primo contatto.
E sempre a proposito di seduzioni istantanee ecco inserirsi dritto nei gangli sensoriali il vigoroso
slow “
Silent”, un’autentica prelibatezza per chiunque ami Soundgarden e Bad Company.
L’ultimo sussulto di un’inattaccabile scaletta lo riserva l’imperioso crescendo emozionale denominato “
Power of truth”, splendido amalgama tra soave malinconia, lirismo e catarsi.
Campioni nella difficile coniugazione tra “classico” e “moderno”, gli
Inglorious per la quinta volta conquistano le vette del settore in virtù di dosi soverchianti di competenza, cultura, classe e ispirazione … un forse banale, ma sentito e caloroso “bentornati”, appare, dunque, un obbligo a cui non mi sottraggo con incrollabile entusiasmo.