Bergtatt è senza dubbio uno dei punti più alti mai raggiunti dal black metal, e - mi sbilancio - forse anche l'album in cui le liriche hanno finalmente trovato il loro continuum ideale nella splendida musica degli Ulver. I testi sono solo una delle caratteristiche vincenti di quest'opera: la storia narra di una ragazza perdutasi nei boschi, che diviene prigioniera di creature sotterranee all'interno della montagna, ma purtroppo non vi sarà possibile saperne di più in quanto le parole sono esclusivamente in norvegese e il booklet non è stato dotato di una traduzione inglese come "Nattens Madrigal". Una scusa in più per mettersi ad imparare questa lingua. La line-up è quella storica degli Ulver, con Kristoffer Rygg (Garm) alla voce, Erik Lancelot (AiwarikiaR) alla batteria, Håvard Jørgensen e Torbjørn Pedersen (Aismal) alle chitarre e Hugh Stephen James Mingay (Skoll) al basso. Qua e là sono presenti piccole partecipazioni di altri due mostri sacri del black come il tastierista Steinar Johnsen (Sverd) in forze agli Arcturus e la flautista Lill Kathrine Stensrud che si occupa anche delle vocals in alcuni punti. Detto questo, la "fiaba folk in cinque parti" si apre con "I troldskog faren vild" supportata da uno dei riff più belli di sempre, malinconico e distante, seguito da una serie di melodie circolari tutte collegate le une alle altre e spezzate solo da qualche inserimento della chitarra solista. I canti a più voci di Garm sono il perfetto compimento di una musica ancora rilassata, nel pieno della calma prima della tempesta. Le complesse dissonanze create dalle chitarre sono sovente accompagnate dal basso, udibile in modo molto chiaro un pò come in Stormblast dei Dimmu Borgir (non a caso Skoll suonò nei Fimbulwinter insieme a Shagrath), e dal costante apporto della chitarra classica, che sarebbe diventata da allora in poi il vero marchio di fabbrica degli Ulver. Proprio con un arpeggio e con il flauto di Lill Kathrine inizia il secondo episodio "Svelen gaaer bag aase need", che pur nella sua calma fa presagire il pericolo nell'aria. Ed infatti dopo poco più di un minuto la melodia esplode improvvisamente in un blast-beat feroce su cui Garm non rinuncia a urlare tutta la sua rabbia con una ferocia ed una convinzione che non ci fece ascoltare neanche sul debutto dei Borknagar. Il bellissimo intermezzo centrale viene rotto ancora una volta dall'assalto della batteria, fino allo splendido coro conclusivo. La terza traccia, "Graablick blew hun vaer", è la più inquietante del lotto. L'inizio è ancora una volta acustico, tuttavia in questo caso l'assalto non riesce a sfruttare per la seconda volta l'effetto sorpresa. Quando ascoltai questa traccia per la prima volta pensavo di aver fregato Garm, indovinando la sua direzione prima che potesse stupirmi... ma lascio a voi la scoperta del particolare che mi ha fatto ricredere. Al centro della composizione, un veloce arpeggio di classica ci porta dritti nei boschi dove la ragazza sta correndo, probabilmente scappando (l'effetto non è dei migliori, ma rende l'idea...), e la fuga è sottolineata da alcuni brevi interventi di Sverd al pianoforte. Dopo oltre sette minuti di intensità arriva l'acustica "Een stemme locker", lenta e suggestiva come una fotografia della montagna bagnata dopo la pioggia. "Bergtatt - ind i fieldkamrene" chiude l'album così com'era iniziato, riassumendo in una sola canzone tutte le caratteristiche della variegata musica degli Ulver: un black metal con grande bisogno di melodia, inserti acustici, cori a più voci e tutta la tradizione del folklore norvegese. L'opera si conclude - troppo presto, e questo è forse l'unico difetto di questo capolavoro - con la visione di un sogno, un lungo arpeggio di chitarra classica che sembra quasi messo lì a tranquillizzarci... l'effetto è tuttavia quello opposto, e non resistiamo a premere un'altra volta il tasto "play" del lettore.