Come dire … c’è
revival e
revival … volendo distinguere in questo modo chi certi suoni del “passato” li ha metabolizzati e li ha resi liberi di fluire in ogni sua fibra artistica da chi invece tenta una “trascrizione” acritica e priva della giusta attitudine di quanto tramandato ai posteri, per esempio, da Cream, The Beatles, Led Zeppelin e Rolling Stones.
Nomi piuttosto apprezzati dai
retro-rockers contemporanei e non citati a caso, dal momento che la suddetta riflessione diventa l’introduzione al nuovo lavoro dei
The Lancasters, gruppo bresciano nato nel 2019 ma con il cuore, i muscoli e il cervello (musicali, prima di tutto, ma non solo …) radicati negli anni a cavallo tra la fine dei
sixties e gli albori dei
seventies.
Detto così si potrebbe quasi pensare che, tornando al prologo, i nostri appartengano alla seconda (pavida) categoria di musicisti descritta, mentre è bene precisare che nonostante l’evidente cultura “classica” che lo alimenta, “
The word of the mistral” non suoni per nulla verboso o fastidiosamente citazionista, riuscendo nell’impresa di apparire “creativo” e attuale anche senza offrire all’ascoltatore la benché minima “novità” sonora.
Un aspetto che li accomuna a tanti abili (e affermati) “restauratori” della
Grande Storia del Rock, e in quest’ottica possiamo tranquillamente accostare l’
opener “
Sons of the sin” all’approccio alla materia ostentato dai Queens Of The Stone Age, classificare “
The one (Who sees in the dark)” come una strisciante e visionaria variazione del verbo
Stones-iano da far invidia a
Bobby Gillespie e raccomandare l’agreste e liquida “
Rules of the road” agli estimatori di
Damon Albarn e
Graham Coxon.
Tanti riferimenti per una
band comunque dotata di una sua personalità, aspetto che emerge altresì negli sbuffi vaporosi e
hippy di “
Crown’s fayre” e nel magnetismo fumoso di “
Stone of whims” (un ingegnoso
mix di Franz Ferdinand e Masters of Reality), tutta “roba” che impressiona abbastanza per competenza e intraprendenza.
“
The blue flowers lead to nowhere” aggiunge qualcosa degli Strokes in un brano leggermente meno efficace degli altri, mentre piacciono parecchio il fraseggio nervoso e
funkadelico di “
Hildegarde”, l’
hard-blues “mutante” di “
Golden ark” e della straniante “
Mirror gaze” e pure il candore
prog-psych-folk di “
Girl in the sun”, che conclude il viaggio con una tappa in un universo dove una
jam-session tra Pink Floyd, King Crimson e Donovan non è inverosimile e produce appaganti vibrazioni sensoriali.
Insomma, con “
The word of the mistral” ci si trova immersi in una forma di “
back to the roots” efficace e vitale, capace di scardinare l’accezione pateticamente nostalgica che spesso si finisce per attribuire al
classic-rock nel 2025… complimenti ai
The Lancasters per aver ottenuto un risultato così rilevante.
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