Quando ebbi l’occasione di intervistare in una mia precedente ‘vita giornalistica’ i P.O.D., ebbi l’impressione di quattro bravi ragazzi tatuati e nerboruti amanti dell’ hip hop, del rock e del seminale hardcore washingotniano degli anni ’80.
A distanza di due anni da quelle quattro chiacchiere a base di ‘Dio e famiglia’ e dai fiumi di inchiostro spesi sul rock cristiano riportato in auge dal quartetto statunitense, giunge la seconda opera, ‘Satellite’ a confermare quanto fatto presagire in “The fundamental elements of southtown”.
Se quel lavoro aveva fatto intravedere le potenzialità della band, con “Satellite” i P.O.D. sciorinano una fruibilità rock sorprendente e basterebbe già il singolo “Alive” per far capire il corso intrapreso, vale a dire crossover corposo e viscerale per le masse; tant’è e non è certo un male se questo porta a pezzi a tutta intensità ed impatto come “Satellite” e “Boom” in cui le liriche rap incastrate con ritornelli cantabili, gli stessi portati al successo globale dai Limp Bizkit, si fanno convincenti e trascinanti.
Quello che attrae della musica dei P.O.D. è la profondità che la pervade…la band piega le ritmiche roventi delle chitarre ed i ritmi alla propria spiritualità ed al desiderio di narrare la vita del ghetto riuscendosi a raccontare con musica affascinante come in “Youth of the nation” o “Ridicolous” i cui toni reggae riportano indietro la musica dei P.O.D. alla tradizione ‘rasta’ pure celebrata con l’apparizione di H.R., storico leader dei Bad Brains nel furioso/gioioso hardcore di “Without Jah, nothing”, doppiato in forma più acre e brutale in “Portrait”.
L’intensa ballad “Think about forever” porta quasi in conclusione di “Satellite” e l’impressione finale è quella di un disco intenso e riuscito per un gruppo in grado di offrirsi al successo senza apparire plastificato…un bel risultato già di per sé, non trovate?
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