Sconosciuti qui da noi, i tedeschi Chalice sono in realtà un gruppo che raggiunge con ‘Shotgun Alley’ il traguardo del quinto full lenght, continuando imperterriti a macinare il loro hard rock dai riff rocciosi in perfetto equilibrio tra il class d’annata e l’ heavy melodico di tipico stampo teutonico . I riferimenti si sprecano proprio in questa zona di appartenenza: Bonfire, Victory, Fair Warning, Axxis, e Pink Cream 69. E proprio i punti di contatto con questa ultima band non finiscono qui dal momento che ‘Shotgun Alley’ vede dietro la console nientemeno che Dennis Ward, leader indiscusso dei Pink Cream 69. A mio avviso il lavoro messo in atto in fase di produzione da quest’ultimo finisce con il passare degli ascolti per tarpare le ali alle velleità del quintetto, finendo per appiattire notevolmente le indubbie capacità di songwriting dei Chalice. Eccessivi sono i suoni di chitarra e batteria, talmente “pompati” da nascondere le melodie e i chorus, nella maggior parte dei casi azzeccati e per nulla scontati, in canzoni come ‘Price Of Love’ oppure nella title track. La spigolosità della proposta viene dai nostri evidenziata nelle numerose fast songs che rispondono al nome di ‘Hollywood Daze’, ‘Twisted Lover’, ‘King Of The Nieighbourhood’: cattive, quadrate (soprattutto quest’ultima), catchy nei refrains, nell’ uso discreto e mai inappropriato della doppia cassa e nelle indubbie capacità balistiche di Oliver Scheer (chitarrista tecnicamente di livello). Questo elemento è sicuramente un punto a favore dei figliocci di Dennis Ward, avvicinandoli per sonorità ai danesi Pretty Maids da cui ereditano quell’anima heavy spesso lasciata in cantina da molti musicisti europei dediti a questo genere. Semmai le pecche dell’album sono da ricercare in una eccessiva omogeneità delle tracks, che sfocia talvolta in una monotonia di fondo nelle strutture (troppo spesso simili) e negli accordi. Sarebbe stato meglio tagliare qualche traccia (‘Beyond the light’ , ‘Kick It’) e puntare su una maggiore varietà di temi come fatto a corrente alternata nel Van Halen sound di ‘Time’, lasciando carta bianca al tastierista Burkhard Becker, troppo spesso relegato al ruolo di sparring partner come nel pur buona ‘Sweet Taste Of Life’. Non mi ha convinto appieno l’ugola di Gino Naschke: troppo sleazy per questo muro di suono, mi ha ricordato Mr. Joel Ellis, muscoloso singer nell’ unico disco ufficiale degli sfortunati Cats In Boots (chi se li ricorda?) in piena Glam Generation. In definitiva un prodotto non malvagio, degno di essere ascoltato distrattamente battendo il piedino e poco più…. la strada verso l’eccellenza di Gotthard e affini è ancora parecchio lontana.
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