Durante la seconda metà dei '90 in Ungheria era assai quotata una formazione doom di nome Mood, considerata la miglior espressione locale di sempre in tale settore. Purtroppo nel 2001, dopo quattro full-lenght e centinaia di concerti, il gruppo ha deciso di sciogliersi e dalle sue ceneri hanno preso vita un paio di progetti interessanti.
Uno si chiama Wall of Sleep e ne ho già parlato diffusamente, mentre l'altro sono i presenti Stereochrist, fondati da un trio di ex-componenti dei Mood.
Attivi da oltre quattro anni, inizialmente come Super Natural poi con l'attuale moniker, hanno esordito con l'album "Dead river blues" ('04) uscito per una indie statunitense. Questo secondo lavoro viene invece pubblicato per Psychedoomelic e ci mostra una band dallo stile torvo, arcigno e pesantissimo.
Un derivato della scuola heavy doom con i contorni fortemente metallici, ed evidenti influssi sludge e bluesy. Facile individuare i punti di riferimento nei vari C.O.C, Crowbar, Alabama Thunderpussy, ma in modo particolare e specifico i Down della coppia Anselmo/Keenan.
Sembra che le paludi della Lousiana siano state trasferite sulle rive del Danubio, tanto appaiono identiche le atmosfere fangose e miasmatiche del disco rispetto a quelle apprezzate nel gruppo americano. In episodi come "Awakening" o "Ghosts of a culture's pride" le somiglianze sono a livello imbarazzante, con l'aggravante dei toni orcheschi di David Makò praticamente indistinguibili dal famoso ex-Pantera.
Comunque gli Stereochrist sono musicisti esperti e navigati, perciò i loro brani risultano ben strutturati e vantano un tonnellaggio impressionante. Chitarre ultra-heavy, ritmiche pachidermiche, incedere intimidatorio, è innegabile l'impatto devastante di macigni tipo "Destroying ruins" o della thrasheggiante "Getting over seven years", forse il top dell'album, così com'è efficace l'opprimenza della lenta "Eyes burnt out" e la sinistra oscurità della title-track.
Nel complesso è valida la miscela di linee tumultuose e piene di rabbia, compattezza d'acciaio e vocals ai limiti del growl, che viene poi colorata a tinte fosche e caricata di pathos e disperazione. In più c'è una vena di grezza ruvidità sudista a dare sapore al sound, pur se ci troviamo in ben altra area geografica.
Però un limite del lavoro è la mancanza di soluzioni che spezzino l'uniformità monolitica. A parte la sola "Good old way", ballata funerea con qualche tocco acustico, i contenuti musicali sono monotematici e l'album tende ad appiattirsi con lo scorrere delle canzoni. Ma più di ogni cosa la reale zavorra è la sensazione, presente dall'inizio alla fine, di stare ascoltando una cover-band. Guardacaso l'ultima traccia è proprio la versione dei magiari di "Bury me in smoke", manco a dirlo firmata dai Down.
Non mi sento di bocciare completamente gli Stereochrist perchè offrono momenti di purissimo e travolgente heavy doom-sludge, ma l'imitazione del loro modello pare davvero eccessiva e da veterani come gli ungheresi si può pretendere maggiore sforzo verso un'identità meno derivativa.
In ogni caso, se amate i Down alla follìa questo album è un buon surrogato per riempire l'attesa di un'eventuale nuovo capitolo di Anselmo e soci, altrimenti vi ho chiarito a cosa andate incontro.
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