Se qualcuno avesse anche solo lontanamente voluto avanzare dei dubbi sulla genuinità della reunion dei Manilla Road, dopo l’uscita lo scorso anno dell’attesissimo come back Atlantis Rising, il suo successore, Spiral Castle, non può fare altro che smentire definitivamente ogni perplessità riguardo lo stato di salute di una delle più seminali epic metal band di sempre. Il disco in questione rappresenta una massiccia conferma del fatto che parlare dei Manilla Road nel 2002 non significa soltanto abbandonarsi a nostalgiche rievocazione dei fasti del passato, ma riconoscere che ancora oggi la band di Mark Shelton è in grado di farsi largamente apprezzare per quello che ha da dire.Spiral Castle infatti rappresenta non solo il disco che ogni fan dei Manilla Road ha sognato di ascoltare dai tempi di Mystification in poi, e quindi il definitivo ritorno alle sonorità che hanno reso memorabili i primi 6 lavori, ma la definitiva conferma che il nuovo corso della band possa portare ad ulteriori graditissime sorprese. Abbandonato ogni tentativo (seppur minimo) di innovazione e cambiamento contenuto nel suo predecessore, il nuovo album riporta subito ai tempi di pietre miliare quali Open The Gates o The Deluge, a partire da una produzione assolutamente degna del nome Manilla Road, aspetto forse poco convincente di Atlantis Rising. Con questo intendo dire che Spiral Castel suona come se registrato nel ’88, anno più anno meno, ovvero caldo e avvolgente, lontano anni luce dalla brillantezza e sinteticità alle quali le nostre orecchie sono stata abituate negli anni ’90. Le chitarre ruvide e il basso incalzante costruiscono enormi tappeti sonori sui quali le melodie, per la maggior parte oscure, tracciate dalla voce di Shelton danno vita a 7 brani capaci di suscitare emozioni indescrivibili. Dall’intro “Gateway To The Spere”, col suo incedere maestoso e apocalittico, fino alla conclusiva strumentale “Sands Of Time”, brano assolutamente unico dal sapore mistico e ipnotico, in cui una sognante linea di violino si fa lentamente spazio tra l’arpeggio di chitarra e l’incedere delle percussioni, ogni singolo episodio vale l’intero disco. La durata media elevata dei singoli brani è già di per sé indicativa del fatto di avere tra le mani un disco da gustare e da scoprire ascolto dopo ascolto, aspetto sottolineato dai connotati oscuramente epici di brani quali la monolitica “Merchants Of Death” o la successiva “Born Upon The Soul”, dove le melodie sinistre e i tempi cadenzati continuano a rivestire il ruolo principale. C’è spazio anche per episodi più ariosi come in “Seven Trumpets”, anche se il tema generale dell’album rimane saldamente ancorato ad atmosfere cupe da assaporare con particolare trasporto e concentrazione. Sicuramente il più bel regalo di Natale che i Manilla Road potessero fare ai propri fedelissimi fan e una delle più fondamentali uscite di questo 2002.
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