Atmosfere vellutate, una matrice hard rock mitigata da arrangiamenti sofisticati e marchiata da uno spiccato e “compiacente” gusto melodico, capaci di far diventare il sound risultante, soprattutto qualche annetto fa, il prediletto dall’airplay d’oltreoceano. In una sola sigla AOR, ed è proprio di questo genere musicale che dobbiamo parlare nel commentare il lavoro dei The Ladder, un progetto giunto al suo secondo disco e che vede coinvolto il vocalist extraordinaire Steve Overland, un “signore” che con i suoi FM (da cui proviene anche il drummer Pete Jupp, laddove per il bassista Bob Skeat ricordiamo l’esperienza con i Wishbone Ash) ha vergato pagine importanti della “versione inglese” di tale ambito stilistico.
Rispetto all’esordio si può notare una significativa novità; non è più il noto Vinny Burns a gestire il “fardello” chitarristico della band e il suo avvicendamento con Gerhard Pichler (Melodica) non solo non è risultato deleterio nell’economia dell’album, ma addirittura il nuovo arrivato sembra aver portato verve e linfa vitale al suono di “Sacred”, tanto da renderlo un eccellente esempio di come le caratteristiche storiche del rock “della radio” possano essere onorate, senza necessariamente mostrarsi troppo “antichi”.
Sebbene il clima generale rimanga sostanzialmente abbastanza soffuso, consentendo ad Overland (un cantante che, come si dice, fa veramente “reparto” da solo e avvolge irresistibilmente l’ascoltatore con il suo tipico “soffio” che proviene dal soul e dal blues) di esprimere appieno il suo enorme potenziale espressivo, anche la componente “energetica” non viene trascurata, così come l’inserimento di una modesta quantità di quel “updated feel” da sempre osteggiato dai più “integralisti” tra i fans del genere, appare assennato e assolutamente non snaturante, in modo da rendere il Cd piuttosto fresco e godibile.
“Body & soul” apre il dischetto con grande suggestione, ma è la title-track a “piazzare” il primo colpo a “sorpresa” di “Sacred”: la melodia è costantemente (av)vincente e la voce di Steve “felpata” come da copione, mentre le chitarre si fanno più “scure” e presenti, creando un piacevolissimo contrasto non eccessivamente accentuato, con il tutto, poi, che viene armonizzato ad arte da un refrain parecchio catalizzante.
“Something to believe in” è uno “slow tune” di sicura presa emotiva, “All of my life”, “Run to you”, “Sea of love”, “Make a wish”, “Mean streets” e “Abandonded” sono numeri di rock radiofonico sfumato nel pop d’incredibile attrattiva e lo stesso tocco r ‘n’ b’ “modernizzato” di “Believe in me”, benché personalmente giudicabile nettamente meno efficace, potrebbe garantire discrete soddisfazioni commerciali. All’appello manca solamente “Here I am”, in cui si respira un’aria leggermente più “familiare”, costantemente assai salubre per i “polmoni” di chiunque ami queste particolari sonorità.
Se, come me, pur apprezzandone le favolose peculiarità specifiche, eravate rimasti lievemente delusi dal pizzico di manierismo che aveva caratterizzato gli Shadowman, altro act targato Escape che si avvale dell’ugola “dorata” di Mr. Overland, non potrete non godere pienamente dell’ascolto di “Sacred”, a patto, però, che sappiate valorizzare aspetti quali l’intelligenza e la distinzione, e non cerchiate necessariamente “l’osservanza” incondizionata di certi precetti fortemente codificati.
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