Di certo non si può dire che alla Roadrunner se la passino male: ci mancavano solo i Dream Theater ad arricchire il già ghiotto roster della label. E così, vuoi che i Porcupine Tree non debbano temere il confronto con gli “ingombranti” 5 di New York? In attesa del loro nuovo lavoro, però, concentriamoci su questo nuovo “Fear of a Blank Planet”, e vediamo cosa ne è stato di Steven Wilson e soci.
Detto in una parola: settoriale. Questo disco, che pur segue pedissequamente l’ormai affermato “Porcupine Style”, non è facilmente fruibile da tutti. Io stesso, nei vari ascolti che gli ho dedicato, sono passato da momenti di entusiasmo alle stelle, ad attimi di noia, ad altri di completo estraniamento. Di certo, il nuovo sound dei Porcupine non si discosta di una briciola da quanto fatto in precedenza: si sente ancora e sempre più forte il legame quasi ombelicale con i Pink Floyd più lisergici e psichedelici, pur se il tutto è rivisitato spesso sotto suoni di chitarre distorte ed arrangiamenti di certo moderni ed attuali. Ma tant’è, l’opener e title track del disco ci regala in 7 minuti quello che troverete poi diluito per tutto il disco: classe, movimenti alto-basso continui, un batterista che, davvero, è sempre più inarrivabile, con buona pace del mio amato Mike Portnoy (non è un caso, credo, che quest’anno Modern Drummer abbia scelto proprio Gavin Harrison come Drummer of the Year, dopo 12 anni di tirannia Portnoyana!).
E, soprattutto, il SENSO. Si, il senso, quell’arcana alchimia tra lo scritto ed il suonato, quell’ostinata testardaggine e coerenza che spinge un artista a far collimare le sue parole con le sue note, con i suoi respiri. Motivo per cui, in pezzi come “My Ashes” o “Way out of here”, troverete spazi ampi e rarefatti, in cui Steven mette tutto il suo disagio interiore, la sua voglia di urlare sottovoce, come se un ossimoro bastasse a descrivere tutto ciò. Non ancora sazi? Beh ci pensano due dei chitarristi più “freaky” della storia, ossia Alex Lifeson e Robert Fripp, ad arricchire, con i loro cameos, composizioni che già di per se richiederebbero lauree in comprensione dell’uomo, se esistessero.
“Fear of a Blank Planet” conferma e non sposta di una virgola la caratura eccezionale che i Porcupine Tree si sono saputi costruire negli anni, in barba al music business ed ai cliché che le mode impongono. Trappola ahinoi mortale, in cui più di un grande gruppo è incappato. Ciò non toglie che il disco sarà difficile da digerire per il non ancora svezzato, come un assenzio amaro e intorpidente, che però sa farti vedere oltre il tuo stupido occhio umano.
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