Ormai mancavano solo loro. Dopo aver collaborato con nomi quali Bon Jovi, Aerosmith, Alice Cooper, Meat Loaf, Dream Theater e compagnia bella, rimaneva ancora da vedere che cosa avrebbe combinato Desmond Child con una band come gli Scorpions. Trattandosi di uno dei migliori (forse il migliore in assoluto) rock songwriter della storia, capace di risollevare la carriera a gente che sembrava non averne più, le attese per questo “Humanity Hour 1” erano comprensibilmente salite alle stelle. Non che ci fosse molto da risollevare nella carriera degli Scorpions: è vero che negli ultimi anni si erano un po’ annacquati (“Eye to eye” faceva proprio schifo, detto fuori dai denti!), ma un lavoro come “Unbreakable” era riuscito a mettere d’accordo pressoché tutti, tanto che i gloriosi fasti degli anni ottanta sembravano nuovamente a portata di mano.
Ecco allora entrare in gioco quella vecchia volpe di Desmond, che non si è accontentato di vivere di rendita, e neppure di sfornare una comoda raccolta di hit. Quello che è uscito dall’equipe creativa da lui presieduta è infatti un lavoro complesso, a tratti cupo, a tratti introspettivo, a tratti drammatico, modernissimo nei suoni, a metà strada tra il classico trademark degli Scorpions e la fortissima personalità del loro produttore.
E se l’attacco massiccio di “Hour 1” può lasciare perplessi, con le sue suggestioni moderniste e le sue melodie vocali al confine con l’alternative, bastano un paio di ascolti in più per capire che qui dietro ci sono sempre Meine e compagni, per un brano che ha davvero un groove da far paura!
La successiva “The game of life” è puro Scorpions style, solo un po’ più pesante nei suoni, e ha un ritornello da infarto: fosse stata su “Love at first sting” avrebbe retto il confronto eccome!
La successiva “We were born to fly” comincia a mettere in chiaro un fatto: questo è un disco in cui le ballad hanno un peso molto più preponderante rispetto al precedente. Una scelta che, se pur in linea con i gusti di Child e con il feeling generale del concept di “Humanity”, risulta forse l’unico punto debole di questo lavoro. Per carità, ci sono cose splendide, come “The future never dies” (in cui si avvertono echi di Meat Loaf), oppure la drammatica magniloquenza di “We will rise again” (“Angels on fire, they fall from the skies, heaven and hell will be burning tonight, covered in ashes I cried out your name, and out of the flames we will rise again. Retorico ma efficace!), ma alla lunga questa formula stanca un po’. Ben vengano dunque i momenti più rock, come le trascinanti “You’re lovin’ me to death” e “321”, degne eredi di perle leggendarie come “No one like you” o “Rock you like a hurricane”. Su tutto poi svetta la voce di Klaus Meine, che è sempre stata da pelle d’oca, ma che questa volta è ancora più ispirata, merito sicuramente di quell’uomo col pizzetto dietro il banco mixer…
Anche il resto della band è in forma smagliante, e se molti potranno anche storcere il naso di fronte alla comparsata di Billy Corgan nel brano “The cross” (non uno dei migliori in realtà, quello in cui le influenze moderne vengono fuori maggiormente), pensatela come una forma di omaggio sincero di un musicista ai miti della sua giovinezza (andatevi a leggere l’intervista e capirete!).
Chiude il tutto una intensissima e sofferta “Humanity”, brano da cui è stato estratto anche un video, e non poteva esserci modo migliore per congedarci da un lavoro del genere.
Trent’anni di carriera alle spalle, più di venti album realizzati, milioni di copie vendute, e ancora essere qui con la voglia di stupire: meravigliosi, li amo alla follia!
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