Oggi sono proprio felice.
Quando questo “How long” si affacciò per la prima volta nel mercato discografico (1989), lo snobbai, lasciandolo languire nelle vaschette del mio music pusher di fiducia.
Qualche anno dopo ebbi l’occasione di ascoltarlo con attenzione e mi pentii amaramente di una scelta così superficiale, ma nel frattempo era diventato una rarità e non m’impegnai nemmeno troppo nel suo reperimento, abbagliato da chissà quale altra “hot sensation”.
Ebbene oggi, grazie (ancora una volta!) alla Frontiers, ho finalmente tra le mani il primo parto della Michael Thompson Band e devo ammettere che nel momento in cui mi appresto a consegnarlo al piatto del fido lettore Cd, mi coglie un misto di trepidazione e nostalgia.
Il disco è semplicemente straordinario e a dispetto di un personale esecutivo globalmente impeccabile (senza dimenticare, inoltre, il contributo degli special guests Bobby Kimball, John Elefante, Terry Bozzio, Jimmy Haslip, Pat Torpey, …), i veri protagonisti “dell’opera” sono Michael Thompson e Rick “Moon” Calhoun, entrambi forti di una formazione R&B (e in certi passaggi del disco questo retaggio appare abbastanza evidente): il primo arrivava dall’esperienza con l’Ellis Hall Group e successivamente si era costruito una rinomata fama di session man (ritroviamo la sua chitarra accanto a Cher, Andy Fraser, Stewart Copeland, Stanley Clarke, ecc., oltre che nelle sountracks delle serie televisive “Fame” e “Miami vice”) mentre il secondo aveva iniziato addirittura come batterista (con i Rufus e Chaka Khan), per poi scoprire la sua vocazione canora con i The Strand e continuare su questa strada collaborando con la Little River Band e Scott Gorham.
Insomma, una coppia di musicisti che al momento della pubblicazione dell’albo aveva già maturato un discreto curriculum (che si sarebbe, tra l’altro enormemente arricchito negli anni a seguire, soprattutto per quanto riguarda Thompson), ma credo sinceramente che nessuno si aspettasse un’alchimia tanto perfetta (in quest’ottica è bene ricordare pure il supporto nel songwriting fornito da Jeff Paris, Mark Spiro e Brett Walker e pure la magistrale produzione curata da Alan Niven e Wyn Davis, noti per il lavoro con i Great White) da partorire un capolavoro di tale portata.
Ed ora un attimo d’attenzione … ho parlato di capolavoro, perché questo è, a tutti gli effetti, “How long”, ma si tratta di una meraviglia capace di sfoggiare anche le sue piccole imperfezioni, regalando agli appassionati d’AOR e di west-coast rock un quadro complessivo dal fascino praticamente irresistibile.
Cercherò di spiegarmi con un paragone (leggermente “sciovinista”) che mi auguro chiarisca ancor meglio il mio pensiero: diciamo che questo platter non è assimilabile ad una donna dai lineamenti e dalle forme straordinariamente appariscenti (ad Oxford utilizzano il temine “strafiga”, non so se Vi è familiare!), con la quale trascorrere un “semplice” periodo (magari anche lungo né!) di gran sollazzo, ed è più vicino al concetto estetico di una ragazza sempre incantevole, ma dalle fattezze più delicate e “rassicuranti” (se mi passate la definizione), con la quale si può pensare a progetti più duraturi.
Ecco “How long” è un disco da “sposare” (mammamia cos’ho detto!), un lavoro che cresce, ascolto dopo ascolto, anche con la forza delle sue piccole fragilità (qualche sporadica prolissità o il ricorso a talune soluzioni di “mestiere”, formalmente irreprensibili, in ogni caso, per catturare l’airplay dell’epoca), agevolmente trascurabili, al cospetto di lampi d’emozione che si conficcano irrimediabilmente nel cuore e nella memoria.
Scegliete uno a caso tra “Secret information”, con il suo velluto pregiato tessuto da una chitarra dosata e irretente e da una voce espressiva come poche, “Wasteland”, dalla costruzione melodica e dal refrain ad inarrivabile coefficiente di suggestione emotiva, “Can’t miss”, vivace e scintillante come una splendida giornata di sole, “Gloria”, un potenziale hit radiofonico inspiegabilmente irrealizzato, “Stranger”, raffinato ed incisivo al tempo stesso o “How long”, una gemma levigata dal valore inestimabile e ditemi se non sono dei momenti di FM-rock degni di enorme considerazione.
Terminato il programma “normale”, la ristampa è ulteriormente impreziosita da “Right to be wrong”, “Love goes on” e da “Wheelchair”, e se le due bonus sono eccellenti esempi di tipiche melodie adulte (grintosa e allusivamente soul la prima, più affabile la seconda), l’inedito conclusivo manifesta un approccio maggiormente “moderno”, con l’ugola di Calhoun che assume sfumature nuove (mi è parso di cogliere perfino qualche bagliore a-la Bono Vox nelle strofe!), in un brano che fa comunque ben sperare per il ritorno “effettivo” della MTB, a quanto sembra, schedulato per il prossimo anno.
Cosa si può aggiungere, arrivati a questo punto … non sottovalutate questo gioiellino ed acquistatelo ora … non è detto che Vi sia concessa, come fortunatamente è successo a me, una futura possibilità di “redenzione”.