Per commentare questo “World entry” degli svedesi Stonelake, direi d’iniziare descrivendo sommariamente le fondamentali caratteristiche professionali del loro cantante, Peter Grundström, capace di avvicendare con la sua volubile laringe l’intensità vocale di un Tony Harnell, la virile capacità seduttiva di un Bon Jovi, ma anche barlumi dello stile di un Geoff Tate (e dei suoi innumerevoli epigoni), catturato ai tempi della sua prorompente vitalità giovanile.
Non Vi “spaventate” … per il momento, almeno, nemmeno la somma delle influenze riesce ancora ad offuscare la luminosità dei singoli “maestri” che le hanno esercitate e ciò nonostante il buon Peter è un valente vocalist e le sue specificità timbriche mi consentono di raccontarvi cosa troverete nel secondo lavoro della sua band: “power de-luxe” di stampo yankee, class metal e hard-rock melodico.
Si parte all’insegna di una torreggiante attitudine “metallica” con “Deal with the devil” e “Body talk”, per poi passare, non senza che l’ascoltatore subisca un piccolo “sbandamento” dovuto al repentino “cambiamento di clima”, a “Words are not enough”, in cui sembra di sentire i Bon Jovi prima che i mastodontici conti in banca ne limitassero l’agilità creativa.
In entrambi i settori, gli Stonelake evidenziano ottime qualità e grande predisposizione, anche grazie all’eccellenza del chitarrista / tastierista (nonché produttore) Jan Åkesson, un musicista che non difetta né in sensibilità, né in duttilità esecutiva.
“City of illusion” appare maggiormente vicina alla tradizione nordica del rock duro, con un ritmo cadenzato ed efficace, “Rest my eyes on you” si segnala come un mid-tempo marchiato da una ricerca melodica particolare, condita da intriganti risvolti “drammatici” (qualcosa di vagamente assimilabile a Heir Apparent, Queensryche e Crimson Glory) e “Magic signs” è un altro episodio piuttosto devoto alla “sacra fiamma” HM, con le tastiere che contribuiscono a creare una situazione densa di pathos.
Arriviamo, così, a “Before I go”, un episodio che non può che ricordare ancora una volta il tipico modo in cui la Scandinavia era (ed è ancora, in parecchi casi!) solita rendere omaggio al cosiddetto “sogno americano”, che diventa più “pragmatico” nella maggiore “cromatura” di “Cold blood”, per poi trasformarsi in una suggestiva ambientazione “radiofonica” in “One love one heart” (la bonus track per il mercato europeo), un affabile numero dal notevole valore emozionale.
Il bilancio finale ratifica “World entry” come un buon Cd, abbastanza godibile e trascinante, in cui i suoi autori hanno voluto esprimere tutta la loro passione per l’hard ‘n’ heavy di ottantiana memoria, realizzando una sorta di “piccolo” compendio di quell’epoca, mettendoci zelo, freschezza e discreta personalità.
Nel suo campo specifico, senz’altro un prodotto superiore alla media.
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