Ve la ricordate quella vecchia battuta di Orson Welles? Quella secondo cui la Svizzera, a dispetto della pace e della prosperità che per secoli ha vantato, avrebbe prodotto solamente gli orologi a cucù (Per la cronaca era ne “Il terzo uomo”, adattamento su grande schermo del celebre romanzo di Graham Greene)? Affermazione allora pienamente condivisibile, dato che i Gotthard non erano ancora arrivati a mietere vittime! Eh sì, perché la band elvetica è ormai da anni una delle più belle realtà dell’hard rock mondiale, nonché una dei più grossi motivi di orgoglio per il proprio paese (non dimentichiamoci dei Krokus e dei Celtic Frost, però!): non ha quasi mai sbagliato un disco, e negli ultimi tempi pare proprio avere una voglia matta di tornare a picchiare duro, dopo che alla fine degli anni ’90 aveva leggermente sterzato verso il pop.
“Lipservice”, col passaggio alla Nuclear Blast e l’organizzazione di un enorme tour mondiale dal successo strepitoso, ha segnato l’inizio della fase più luminosa nella carriera di Leo Leoni e soci: abbandonate per sempre le vesti dei Vasco Rossi delle Alpi, il quintetto è finalmente pronto per la conquista delle platee internazionali, e bisogna dire che ha tutte le carte in regola per riuscirci!
“The domino effect”, l’ottavo lavoro in studio per i Gotthard, il secondo della rinascita rock è, tanto per cambiare, un capolavoro. Oddio, non è un’affermazione che vi troverete a sottoscrivere al primo ascolto: alla faccia di chi sostiene che la formula vincente non si cambia, il gruppo si è divertito a rimescolare le carte in tavola. Se tutti i brani del disco precedente funzionavano immediatamente, per quel loro appeal diretto ed irresistibile, perfetta miscela tra l’hard rock più ruvido e stradaiolo e l’Aor più dolce e platinato, questa volta è evidente una maggiore ricerca sonora, una costruzione delle canzoni che bada maggiormente alla potenza, al lavoro di chitarra, agli arrangiamenti, e meno all’impatto commerciale del singolo pezzo.
Ne risulta un disco più vario, più duro, più grezzo e se vogliamo anche più oscuro, che non rinnega però la fortissima personalità di questa band: in poche parole, un disco dei Gotthard al 100%!
Del resto, brani come “The oscar goes to you”, “Falling”, “Come around”, sono le solite composizioni meravigliose a cui gli svizzeri ci hanno abituato da tempo: che siano ballate o pezzi veloci, vanno dritte al cuore e non ne escono più, anche quando, come nel caso del singolo apripista “The call”, possono apparire palesemente già sentite.
Dall’altra parte, le varie “Bad to the bone”, “Gone too far” (col suo riff che ricorda incredibilmente “Sirens” dei Savatage, anche se Steve mi ha giurato che non l’hanno mai sentita!), la ruvida “The cruiser”, o ancora la rocciosa “Heal me”, che fa ruffianamente il verso agli Ac/Dc, sono decisamente lontane dall’immediatezza da classifica e possono sembrare anche più moderne nel loro approccio sonoro.
E’ davvero bello che ci sia questa volontà di mettersi continuamente in gioco, di non sedersi sugli allori, ma di cercare continuamente nuovi stimoli, nuovi consensi.
Consensi che, ne siamo più che certi, non tarderanno ad arrivare, vista la facilità con cui anche questa volta hanno inanellato una serie imbarazzante di perle magistrali: ascoltatevi il mid tempo da brividi della title track e ditemi se non vi vedete già sotto il palco del loro prossimo tour a cantarne a squarciagola il ritornello…
Meglio finirla qui, altrimenti si corre il rischio di diventare retorici: facciamo parlare la musica, che è quello che veramente conta. Appuntamento al 27 aprile in tutti i negozi di dischi…
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