Per i Metallica, il 1984 è l’hanno della svolta.
Il gruppo, forgiato dalla promozione del precedente
Kill Em All, esce con
Ride The Lightning che, per la prima volta, mette in luce quello che negli anni successivi diverrà il marchio di fabbrica della band, semplificabile in un approccio piuttosto personale a quello che comunemente è definito thrash metal.
Nel dipanarsi della tracklist, infatti, i quattro subiscono una metamorfosi, che porta le composizioni a distanziarsi dal ritmo veloce e grezzo che si ascolta su Kill, nonostante, curiosamente, anche in due pezzi di Ride si ritrovi lo zampino del reietto
Mustaine, che si era particolarmente prodigato per il debutto della band.
Il disco si apre con la furiosa
“Fight fire with fire”, il pezzo musicalmente e liricamente più thrash che s’incontrerà nel corso dell’ascolto, al cui interno Hetfield mostra d’aver raggiunto una dimensione vocale destinata a consacrarlo tra i più validi cantanti del genere nel corso degli anni ’80.
Si prosegue con la title track, in cui il rinnovato “stile Metallica” abilmente altalenante tra melodia e granitica furia, si paventa per la prima volta in maniera consistente, sfociando nelle successive
“For whom the bell tolls” e
“Fade to black”, dove il gruppo assegna forma definitiva alle proprie composizioni, che rispecchiano maturazione artistica anche in virtù dei temi affrontati nelle liriche. Non sarà (spero) sfuggito a nessuno, infatti, la chiara ispirazione che For whom the bell tolls trae dall’omonimo capolavoro letterario di
Ernest Hemingway e l’introspezione ai limiti della ballata che trasuda da Fade to black.
Di fronte a cotanta beltà, le seguenti
“Trapped under ice” e
“Escape” raffreddano un po’ l’entusiasmo palpabile fino al quarto pezzo. Non si sta parlando di due brani indegni ma incolori (soprattutto il primo), che inseriti nel bel mezzo della scaletta, congelano la riuscita complessiva del disco.
Per fortuna, con le tracce finali la qualità di
Ride The Lightning torna a crescere.
In
“Creeping death” i Metallica si ripropongono canonicamente thrash costruendo il successo del pezzo sull’ottima struttura ritmica di Hetfield, un degno assolo al fulmicotone di Hammett e un refrain a ¾ del pezzo che ha fatto cantare platee sconfinate da quel 1984 a oggi.
In controtendenza rispetto al sentore comune, i Metallica scelgono di chiudere l’album con
“The call of Ktulu”, seconda strumentale della propria carriera (notevolmente più articolata ed estesa rispetto alla precedente
"Anesthesia") concepita come tributo al principe della letteratura occulta
H.P. Lovecraft. Il brano, grazie a un costante crescendo manieristico e oscuro, centra il proprio obiettivo chiudendo più che degnamente il disco.
Terminato l’ascolto, è chiaro come il sole che quest’album rappresenta per i Metallica il vero punto d’inizio del proprio cammino artistico, che si biforcherà nuovamente soltanto qualche anno più tardi.
A livello tecnico è da segnalare la buona prova offerta dal produttore
Flemming Rasmussen, qui al suo primo incarico col gruppo californiano, capace d’esaltare le migliori caratteristiche del gruppo, soprattutto chitarre e voci, mettendo contemporaneamente una pezza al tallone d’Achille del quartetto: la perizia di Ulrich, che si dimostra tanto valido come compositore, quanto limitato e privo di fantasia nel ruolo di strumentista.
Menzione d’onore a Burton che in
Ride The Lightning ben si guadagna la nomea di “anima” della formazione, sia per il lavoro svolto col proprio basso (e distorsore) che per essere stato in grado di scollare il duo Hetfield/Ulrich dalla pedissequa derivazione britannica di stampo Morothead, Venom e via discorrendo.