Copertina 9

Info

Past
Anno di uscita:1986
Durata:54 min.
Etichetta:Elektra

Tracklist

  1. BATTERY
  2. MASTER OF PUPPETS
  3. THE THING THAT SHOULD NOT BE
  4. WELCOME HOME (SANITARIUM)
  5. DISPOSABLE HEROES
  6. LEPER MESSIAH
  7. ORION
  8. DAMAGE INC.

Line up

  • James Hetfield: rhythm guitar, vocals
  • Lars Ulrich: drums
  • Cliff Burton: bass
  • Kirk Hammett: lead guitar

Voto medio utenti

Correva l’anno 1986 quando i Metallica pubblicarono il terzo album della propria carriera, il secondo a uscire per l’Elektra e ad avvalersi dell’opera di Rasmussen al mixer.
Confermando che “3” è il numero perfetto, Master Of Puppets diverrà negli anni LA pietra miliare nel cammino dei Metallica, imponendosi come tappa obbligata per il 90% di coloro che si avvicinano al metal per la prima volta, grazie al sovrapporsi di tre (guarda caso) fattori fondamentali:
• impatto e “associabilità” del nome della formazione (fin troppo scontato rilevare l’assonanza tra “metal” e “Metallica”);
• una delle più belle copertine mai realizzate, a dimostrazione che anche l’occhio vuole sempre la sua parte (complimenti al volpone Don Brautigam che diverrà autore di altri celebri art work);
• l’innata capacità del gruppo (bissata soltanto dai Testament con riscontri di mercato sicuramente più contenuti) di saper proporre l’estremo di quegli anni in forma appetibile per ogni orecchio minimamente avvezzo al suono di una chitarra distorta.

Fatte le dovute premesse, spazio alla sostanza!
Il disco è aperto impeccabilmente da “Battery” che, ricalcando la struttura di “Fight fire with fire”, inizia in arpeggio per poi abbandonarsi a una sfuriata thrash di grande intensità, in cui la melodia trova i suoi spazi ma in chiave minoritaria rispetto alla quantità di mazzate che sono elargite a piene mani.
Segue “Master of puppets”, inno dell’album introdotto da riff e batteria ben amalgamati e d’impatto, su cui s’innesta dopo il primo minuto Hetfield, che fornisce una delle migliori prove vocali della propria carriera, anche grazie a un mixaggio sapiente che pone la voce quasi in secondo piano rispetto all’incedere degli strumenti, i quali si mantengono sul tempo medio fino alla prima apertura melodica all’interno del pezzo, dove Hammett ritaglia uno dei suoi migliori momenti di gloria seguito da un crescendo di batteria/basso su cui s’innestano, in successione, la voce di Hetfield e nuovamente Hammett questa volta con soluzioni più taglienti. Si prosegue, poi, con sezione meramente strumentale sino alla ri-proposizione del riff d’apertura, che scandisce le ultime strofe e relativo ritornello della lirica, conducendo al finale definitivo di un pezzo marcatamente esteso ma assolutamente scorrevole.
La successiva “The thing that should not be” ritrova le atmosfere occulte lasciate in chiusura di Ride The Lightning, qui proposte in chiave cadenzata e massiccia, spezzata dal solo di Hammett circa a metà pezzo.
Magistrale seguito con “Welcome home (Sanitarium)” introdotta da una malinconica apertura che si assesta su un crescendo calibrato e costante, volto a ben supportare il tema della lirica, incentrato sul dramma dei pazienti degli istituti psichiatrici, che esplode in tutta la propria rabbiosa sofferenza nella seconda parte del brano, quella più cattiva e potente.
L’ultima parte del disco si apre, come la prima, all’insegna del thrash di maggior impatto, scelta obbligata poiché il pezzo affronta il tema della guerra. In quest’occasione, è la sezione ritmica a imporsi su tutto il resto, voce a parte che qui, come già successo in Master, da il meglio di se.
“Leper Messiah”, a mio avviso, è il brano più particolare dell’album. L’aspra critica verso la religiosità anglosassone piena di predicatori accattoni che fanno incetta di dollari spacciando per fede una serie infinità di banalità alla casalinga di Voghera di turno, è musicata da una sezione strumentale in cui avverto diversi richiami al post-thrash dei primi anni ’90. Non è un caso, infatti, che questo pezzo sia piuttosto avaro in aperture melodiche, accennate solamente nel solo di Hammett.
Fino a ora s’è parlato poco di Burton. Il bassista, in realtà, è stato artefice dell’ormai consueta prova convincente e fondamentale per il gruppo (il motivo, lo lascio scoprire a voi) ma è soltanto nella strumentale “Orion” che conquista il palco d’onore. La sua presenza all’intero del pezzo è, infatti, di primo piano per tutta la durata del brano, dove costruisce una prestazione che non si distingue per estro tecnico (che nei Metallica nessuno si è mai potuto permettere) ma piuttosto per gusto e sistematica presenza. Anche quando le chitarre tentano di sequestrare l’orecchio, il quattro corde è sempre lì a dire la sua, e giunti al termine della composizione fa strano pensare che siano passati otto minuti abbondanti dall’inizio del pezzo.
Master Of Puppets potrebbe chiudersi tranquillamente qui ma i Metallica trovano ancora spazio per l’ultimo assalto dell’album a nome “Damage Inc.”. Si tratta di un brano in cui il ritmo furente diventa comune denominatore dei quattro membri del gruppo, un pezzo schiettamente thrash ma che all’interno del disco e nello stile della band lascia un po’ il tempo che trova pur facendosi ascoltare con piacere.

Trascorsi quasi 55 minuti di musica, ma soprattutto 23 anni dopo il 1986, è laborioso stilare un giudizio su Master Of Puppers che possa soddisfare la più ampia porzione di platea.
Come già asserito nella prefazione di questo testo, l’album è diventato uno dei fondamentali del metal, ancor di più se si restringe il campo al solo Nord America.
L’encomiabile prova del gruppo (anche Ulrich ha mostrato un discreto miglioramento pur rimanendo ben distante da quello che dovrebbe essere un batterista thrash – se al genere levi un tupa tupa ben fatto che resta?) ha reso Master il punto d’arrivo del cammino iniziato con Kill Em All ma standardizzato soltanto nel successivo Ride The Lightning.
Troppo spesso, però, c’è la tendenza a incoronare la terza uscita dei cavalieri come l’apice di un genere intero, quando sarebbe più saggio, anche per le proprie orecchie, limitare l’impatto di Master a volano per approfondire un genere che è andato ben oltre, anche qualitativamente, a questo disco.
Recensione a cura di Luca 'Orphen' Recla
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