“
Roots” è il miglior disco dei
Sepultura e di tutti i progetti e le band ed essi collegati, ed è uno dei migliori dischi se non dei più influenti di tutta la storia del metal. Chi non è d'accordo con questa presa di posizione può anche abbandonare la lettura di questa recensione, perché alla fine sono sicuro che gli farà male il fegato.
Nel 1996, all'alba del fenomeno nu metal, che fa della contaminazione tra stili e generi il suo credo, i
Sepultura danno luce al crossover definitivo, musica che ruota intorno a due pilastri, la contaminazione, appunto, e il concetto di tribù.
Se prima di “
Roots” potevano fregiarsi di un thrash/hardcore sì piacevole, ma modesto nei risultati, (perchè senza questo disco i
Sepultura sarebbero rimasti un'onesta band di metallari thrashettoni) con il presente disco i nostri vanno oltre, in un territorio dove nessuno ancora si era spinto. Inglobano un approccio tribale, si aprono alle nuove influenze del suono americano, lo ipervitaminizzano con il loro approccio thrashcore e tirano fuori 15 tracce che spaccano culi a go go. Aggiungete che produce
Ross Robinson e una serie di collaborazioni con artisti emergenti, come
Jonathan Davis,
Mike Patton,
Dj Lethal, che creano quella tribù, intesa come comunità di artisti che si influenzano a vicenda che sarà il leit motiv della carriera di
Max Cavalera.
Apre il singolo “
Roots Bloody Roots”, un pezzo pesantissimo ma dalla melodia che ti si ficca in testa e raggiunge anche quelle fasce d'ascolto non proprio avvezze al metal pesante.
Da quel momento è un'infilata di pezzi clamorosi, mastodontici, nei suoni e nell'esecuzione.
“
Attitude” è un carrarmato che non si ferma davanti a nulla, “
Cut-Throat” è un inno di rabbia cieca e violenta, nella quale
Max Cavalera realizza la sua miglior prova vocale di sempre, ruvida e barbarica.
Poi arriva “
Ratamahatta”, in collaborazione con
Carlinhos Brown ed è tribal metal come mai prima e mai dopo.
“
Breed Apart” e “
Straighthate” sono altre due mattonate di rabbia furibonda, massiccia e incazzata, ma nulla in confronto alla scheggia crust/hardcore di “
Spit”.
Non c'è un attimo di requie, non una caduta di tono, non una nota fuori posto, non un solo secondo di riempitivo.
Poi arriva “
Lookaway”, il pezzo nel quale la collaborazione delle guest-stars assume una dimensione compiuta, nel quale il groove ti sale lento e mellifluo in gola ed esplode dilaniandoti il torace.
Quando forse avremmo bisogno di un intermezzo, un riempitivo, i
Sepultura infilano un'altra micidiale doppietta con “
Dusted” e, soprattutto, la lancinante e virulenta “
Born Stubborn”, pura e selvaggia aggressione sonora.
Ok, è arrivato il momento della pausa, con “
Jasco “ e “
Itsari”, ma solo per mostrarci che la contaminazione non è solo un mezzo per mostrarsi al passo coi tempi, ma un'esigenza che è viscerale e che si serve, da un lato, di strumenti propri della tradizione tribale e, dall'altro, si spinge fin nelle più remote zone dell'Amazzonia per jammare con la tribù
Xavante.
Dopo la quiete arriva la tempesta e “
Ambush” è molto più di una tempesta, è un uragano delirante che, nel cantare le sventure della foresta amazzonica, distrutta ad opera di speculatori, da vita ad un finale grindcore che piscia letteralmente in testa a qualsiasi altro gruppo che abbia mai osato definirsi in tal guisa.
Chiudono il disco “
Endangered Species”. “
Dictatorshit” e una ghost track tribale registrata nella foresta amazzonica, per non farci mancare proprio nulla.
Un disco fondamentale di una band che nasce e muore qui, e che, pur tuttavia, si consegna alla leggenda.