Il terzo capitolo della saga
Megadeth è senza mezzi termini l’emblema più rappresentativo di ciò che è stato il thrash metal statunitense a livello sonoro e attitudinale.
Correva l’anno 1988 e un Dave Mustaine in piena crisi personale causa abusi frequenti d’alcool e droga, da alle stampe il terzo capitolo della saga Megadeth, che ancora una volta rinnovano la formazione. Fuori, dunque, Chris Poland e Gar Samuelson rimpiazzati da Jeff Young e Chuck Behler.
Nonostante gli scombussolamenti del master mind e l’inserimento di due illustri sconosciuti, i Megadeth mettono in canna 35 minuti di thrash da tramandare ai posteri. Le danze, aperte da
“Into the lungs of Hell” una delle più potenti e fulminee strumentali mai ascoltate nel genere, procedono con rapidità disarmante, ma soprattutto si dipanano in un percorso emozionale che non ha eguali. Mustaine è, infatti, riuscito a infarcire ogni pezzo presente nell’album della carica vitale (spesso e volentieri auto distruttiva) cui era letteralmente divorato sul finire degli anni’80.
Il risultato è gioco forza un disco impregnato d’impatto anarchico e anti-sistema che trova massima espressione in autentici inni come
“Set the world afire”, nella cover di
"Anarchy in the U.K." (che fa impallidire la versione originale) e nella chiusura affidata a
“Hook in mouth” dove spicca il miglior mid-tempo partorito dalla tossica mente di Mustaine.
Imprescindibili anche
“502”, testimone delle scorribande in auto che il biondo compiva quando era in preda ad ogni sorta di stupefacente,
“Liar” in cui Mustaine punta il dito contro l’ex compagno d’avventure Poland reo di dilapidare la strumentazione del gruppo per acquistare la dose quotidiana e
“In my darkest hour” composta da Mustaine in memoria del famigerato ex compagno di gruppo Cliff Burton.
Ce ne sarebbe ancora per così da dire su quest’album (a cominciare da
“Mary Jane”) ma preferisco tornare ad ascoltarlo per l’ennesima volta, anche per ritrovare un po’ di sana incazzatura nei confronti di un mondo che in vent’anni non è cambiato di una virgola e nei cui confronti la critica sanguigna, e in parte irrazionale, mossa da So Far So Good è ancora attualissima.
Prima di chiudere, un ultimo consiglio: se non possedete il disco, tenetevi debitamente alla larga dalla ristampa rintracciabile in ogni negozio, la masterizzazione e parziale registrazione ex-novo dei brani li ha rovinati non poco.
Dunque armatevi di pazienza, aprite l’ennesimo mutuo, pignoratevi il quinto dello stipendio, vendete vostra madre, ammazzate un Buddha, ma procuratevi ESCLUSIVAMENTE la stampa originale di questo capolavoro.