I
Morbid Angel si formarono nel 1984 in Florida, a Tampa, la capitale del Death Metal, principalmente per il volere del chitarrista
Trey Azagthoth e del batterista
Mike Browning ai quali nel 1985 si aggiungerà
Richard Brunelle.
Mike Browning in seguito, dopo aver inciso sia le parti di batteria che quelle vocali di "Abomination of Desolation" (il loro vero primo full-length), a causa di dissidi con
Trey lascerà il gruppo.
"Abomination of Desolation", in base al contratto stipulato, sarebbe dovuto uscire per la Goreque Records, una piccola etichetta discografica gestita da David Vincent, ma non fu mai realmente pubblicato fino al 1991 perché non ritenuto all'altezza da
Trey e
Vincent.
Dopo alcune peripezie
David Vincent si unì stabilmente al gruppo ricoprendo sia il ruolo di bassista che di cantante, e in seguito nel 1988 si aggiungerà a loro il batterista
Pete Sandoval. Dopo un breve tour negli Stati uniti verranno notati da Mitch Harris, batterista dei Napalm Death, e grazie alle sue conoscenze e al suo aiuto introdotti alla collaborazione con la più nota label
Earache Records (la stessa che produceva i Napalm), e diedero alle stampe nel 1989 la loro prima fatica in studio, quantomeno ufficialmente: "
Altars of Madness".
Dunque, ricapitolando, la line-up dei
Morbid Angel era costituita da
David Vincent al basso e al microfono, la coppia
Richard Brunelle (R.I.P. 2019) /
Trey Azagthoth alla chitarra, e
Pete Sandoval dietro le pelli.
"
Altars of Madness" è stato un disco sbalorditivo, sia per qualità musicale che per tasso tecnico ed innovatività. Si deve pensare che nel 1989 i dischi più estremi erano degli Slayer, dei Kreator, i primi due lavori dei Possessed e i primi due dei Death: "Scream Bloody Gore" del 1987 e "Leprosy" del 1988, da cui probabilmente i
Morbid Angel hanno tratto ispirazione (N.B. "
Altars of Madness" è uscito quasi in contemporanea a "Slowly We Rot" degli Obituary).
Ma se lo scettro di ”ideatori” del Death Metal va sicuramente ai Death e ai Possessed, i
Morbid Angel si può dire che siano stati probabilmente i primi ad avergli dato il volto che oggi tutti noi conosciamo.
Credo che si possa affermare che il debut della band di Tampa sia stata un'assoluta novità nel panorama underground; fino ad allora nessuno aveva suonato con quella brutalità e al contempo con un tasso tecnico così elevato. Riuscirono a creare uno strato sofisticato di melodia che si insinuava, con inusitata naturalezza, tra le dissonanze e i tritoni all'interno del Death Metal duro e puro che proponevano all'ascoltatore. Il merito di questo risiede prevalentemente nel lavoro di
Trey Azagthoth, vero e proprio mastermind della band, il quale mette in mostra una dote eccezionale sia in sede di songwriting (è lui il principale compositore delle musiche), che per quanto riguarda la tecnica esecutiva. Il chitarrista tra le varie cose è artefice di una serie di assoli memorabili.
Altro elemento di novità da segnalare, e di importanza fondamentale per tutto il panorama estremo, e mi riferisco anche all'influenza avuta sul Black Metal, è la tecnica di batteria di
Pete Sandoval, il quale portò la velocità esecutiva di doppia cassa a livelli fino ad allora inesplorati (non a caso fu soprannominato "Pete The Feet"), e diede un enorme contributo all'evoluzione del blast beat.
Il blast beat già esisteva, se ne potevano trovare vari esempi in formazioni di matrice Thrash/Hardcore come i D.R.I., da Charlie Benante con i suoi S.O.A.D. – nei brani "Milk" e "Anti-procrastination Song" (1985) –, dai Napalm Death nel loro esordio "Scum" (1987), nei primi Carcass, in "I.N.R.I." dei Sarcofago e qualcosa di simile in altri prodotti seminali, ma si trattava ancora di un blast in fase embrionale e non sviluppato nella forma che conosciamo oggi. La tecnica "finita" esiste proprio grazie a maestri come
Pete Sandoval, il quale se rapportato al 1989 appare alla stregua di un marziano.
A tutto ciò si va ad aggiungere il supporto del basso di
David Vincent ed il suo iconico growl, brutale ma sempre ben calibrato e con uno stile superiore agli standard della sua epoca.
Una parte del merito della grande resa sonora dell’album e della sua incredibile modernità, a mio parere, risiede anche nella produzione, svolta da
Digby Pearson e dalla band stessa ai Morrisound Recording Studios. Un lavoro davvero ben calibrato, in grado di mettere in risalto tutti gli strumentisti sia nelle parti violente che in quelle più melodiche. Senza dubbio una delle migliori produzioni della scena underground di quegli anni.
Il long-playing si compone di 9 tracce per un totale di 35 minuti (sulla prima versione in CD è inoltre presente, in quinta posizione, la canzone "
Lord Of All Fevers And Plagues" e come bonus track i remix di "
Maze Of Torment", "
Chapel Of Ghouls" e "
Blapshemy").
Non esistono punti deboli o brani riempitivi, tutto scorre fluido, dall'incipit in sordina di "
Immortal Rites", la quale deflagra in una serie di riff complessi e dissonanti, sino a giungere alla finale "
Evil Spells". Senza volerlo (o forse si!) ci si trova avviluppati nel sound di caustica e feroce melodia, dai tratti misticamente sontuosi ed oscuri dei quattro statunitensi... una magia che pervade tutto il platter, in grado di trasportare l'ascoltatore in questa dimensione onirica che si muove su tempi e controtempi dinamici e inquietanti, come lo sono i sogni più vividi.
Difficile isolare un momento piuttosto che un altro quando tutto è perfetto... in ogni caso volendo mettere in luce alcuni brani mi sentirei di segnalare la già citata opener "
Immortal Rites", "
Visions From The Darkside", la quale contiene alcune delle trame di chitarra più emulate di tutto il Metal estremo (Black compreso). La furia iconoclasta di "
Maze of Torment", vero e proprio assalto frontale con un bellissimo rallentamento nella parte centrale della seconda metà; pezzo caratterizzato da riff al vetriolo di facile memorizzazione, assoli folgoranti e un drumming potentissimo con blast beat e doppia cassa a profusione.
L'intricatissima "
Chapel of Ghouls", destinata a diventare un vero e proprio cavallo di battaglia dei quattro deathster. "
Lord Of All Fevers & Plague" – presente solo nelle successive ristampe –, grazie soprattutto alla prestazione al microfono del singer, che riesce a dargli un andamento dannatamente catchy con un mood Thrash/Hardcore che non guasta affatto.
Per quel che riguarda i testi c'è poco da riferire... sono in perfetta sintonia con il titolo del prodotto, e trattano quasi tutti di satanismo, anticristianesimo e scenari simil-apocalittici.
"
Altars of Madness" rappresenta una delle vette più alte che siano mai state raggiunte in ambito Death, un disco che ha fatto scuola e i cui semi continuano a vivere, consapevoli o meno, nella musica delle nuove generazioni.
Recensione a cura di DiX88