I
Dark Angel, band statunitense formatasi nel 1981 inizialmente con il nome di Shellshock, dopo aver pubblicato nel 1985 il loro primo full-length, l'approssimativo "We Have Arrived", nel 1986 daranno alle stampe quello che sarà a tutti gli effetti il loro capolavoro: "
Darkness Descends".
La line-up del 1986 è la medesima del suo predecessore, fatta eccezione per l'entrata del formidabile
Gene Hoglan dietro le pelli (proveniente dai Wargod) al posto di Jack Schwartz.
Quindi a scopo riepilogativo abbiamo:
Don Doty alla Voce,
Eric Meyer alla chitarra insieme al compianto
Jim Durkin (R.I.P. 2023),
Gene Hoglan alla batteria e
Rob Yahn al basso. Quest'ultimo lascerà i
Dark Angel subito dopo aver registrato, consegnando così il ruolo a Mike Gonzalez.
"
Darkness Descends" venne pubblicato in quello che più volte abbiamo definito l'anno di grazia del Thrash Metal, ed a mio parere rappresenta subito dopo "Master of Puppets", "Reign in Blood" e "Pleasure to Kill", il miglior lavoro del 1986 e tra i più iconici di tutto il movimento in generale.
Ho sempre trovato sorprendente come un platter così portentoso non sia riuscito ad avere il successo meritato, ma soprattutto come la band di Los Angeles non sia stata capace di affermarsi come peso massimo della scena, poiché come dimostra questo long playing, e la carriera futura di
Hoglan, aveva tutte le carte in tavola per farlo. Penso che la ragione del suo parziale insuccesso sia ascrivibile alla svolta eccessivamente tecnica che prenderà corpo dal seguente "Leave Scars” (1989) per poi culminare con "Time Does Not Heal” (1991), unito alla sfortuna di trovarsi a quella che rappresenta una delle prove più importanti per un gruppo, ovvero la fatidica terza fatica in studio (mi riferisco a “Leave Scars”), alle porte dell'avvento del Grunge, il quale fece letteralmente traballare tutto il Thrash Metal e non solo. Oltre a questo hanno sicuramente giocato a sfavore i forti litigi tra i suoi membri costituenti che culmineranno con il suo scioglimento nel 1992.
Esaminando l'album più da vicino, innanzitutto possiamo da subito notare la sua brevità, 7 tracce piuttosto articolate spalmate su circa 35 minuti di musica.
Il suono sprigionato dai giovani thrasher è duro come l'acciaio, sporco e tagliente, si tratta di pezzi molto veloci suonati al massimo della violenza, con un tasso tecnico già al tempo piuttosto elevato; giusto per intendersi non c'è spazio per momenti più riflessivi tipo una "Welcome Home (Sanitarium)" o una "Orion". Non per questo però si può dire che le sette punte incise dai cinque americani non siano portatrici di melodia, semplicemente questa è declinata sempre in funzione di una resa sonora primordiale ed esasperata nella direzione della potenza e della furia esecutiva.
I tratti salienti del prodotto sono innanzitutto il drumming potentissimo di
Gene Hoglan, il quale per l'epoca mette in mostra una tecnica alla doppia cassa davvero invidiabile, un vero e proprio metronomo, qualificandosi già come uno dei più abili esecutori del panorama musicale. Tecnico, preciso, quadrato nei momenti in cui c'è da pestare...sicuramente molto superiore al buon Jack Schwartz del debut album.
Anche i riff della coppia d'asce
Durkin/Meyer sono catchy al punto giusto, taglienti, intricati e al tempo stesso rozzi (o almeno in apparenza), impreziositi da numerosi assoli avvincenti. Il tutto è ben supportato dall'eccellente prova al basso di
Rob Yahn (fin troppo in rilievo) e dalla voce acida di
Don Doty – secondo chi vi scrive nettamente più efficace, seppur meno tecnico, del suo successore Ron Rinehart – dalle chiarissime influenze Hardcore.
Il massacro uditivo inizia con l'articolata e anthemica title-track, per proseguire con quello che personalmente ritengo essere uno dei pezzi Thrash per antonomasia, vera e propria lezione per le generazioni future: "
The Burning of Sodom". Ottima anche "
Hunger of The Undead" che ci conduce con forza ad un'altra perla dal refrain irresistibile: "
Merciless Death", già presente nel loro esordio discografico, ma qui suonata con maggior convinzione e perizia.
Ci si avvia verso la conclusione con la cantabile "
Death Is Certain (Life Is Not)", la prolissa "
Black Prophecies" (forse l'unico punto leggermente debole del lotto), e poi si chiude con la velocità al vetriolo di "
Perish in Flames".
Viene un po' penalizzato l'ascolto a causa di una produzione – svolta da
Randy Burns e dai
Dark Angel stessi – non ottimale, che seppur in grado di dare un grande impatto al suono dei ragazzi di Los Angeles, pecca nel bilanciamento degli strumenti. I bassi sono fin troppo in evidenza finendo per ovattare in vari frangenti le linee di chitarra. In ogni caso il prodotto risulta ugualmente godibile e con un tiro pazzesco.
Per quanto riguarda le tematiche, queste si discostano leggermente da quelle tipiche del genere, non risultando incentrate meramente sul satanismo, l'horror e temi simili, ma prevalentemente su scenari apocalittici derivati da una implicita critica ad una società vista come vocata all'autodistruzione. C'è spazio anche per il mondo dei fumetti come avviene con l'omonima "
Darkness Descends", la quale parla dei personaggi dei Dark Judges della serie Judge Dredd, che nel ritornello contiene anche la loro nota affermazione: "Questa città è colpevole, il crimine è la vita, la sentenza è la morte".
I giovani metalhead si scagliano anche contro la dogmaticità delle religioni, e seppur in maniera rudimentale abbracciano con forza la causa di battaglie sociali come quella dell'eutanasia (vedi "
Death Is Certain (Life Is Not)"). Come già accennato non manca la disperazione suscitata dalla prospettiva di apocalittiche catastrofi nucleari come "
Perish In Flames", omaggi a Nostradamus e alle sue profezie ("
Black Prophecies"), e altre sfere concettuali affini, con tanto di argomenti biblici come "
The Burning of Sodom" in cui si narra parte della distruzione di Sodoma e Gomorra.
"
Darkness Descends" è un disco seminale, uno degli apici del Thrash made in USA e di tutto il movimento in generale. Un condensato di tecnica, spontaneità e rabbia giovanile che conosce ben pochi rivali.
Rappresenta senza ombra di dubbio un enorme passo avanti rispetto al suo predecessore, e questo grazie anche all'innesto in formazione di
Gene Hoglan, che oltre al suo sublime apporto esecutivo darà il suo contributo anche in fase di songwriting.
...Un album assolutamente imperdibile per tutti i metallari della vecchia guardia.
Recensione a cura di DiX88