Ed eccoci a commentare un altro “ritorno”, l’ennesimo esponente di un trend che non accenna ad affievolirsi, capace nondimeno di regalare, è bene ammetterlo, non poche soddisfazioni ai sostenitori del rock.
Non si tratta, però, di una rentrée “qualunque”, almeno per quanti, come me, adorano l’hard rock blues.
I Great White, furono tra i primi, infatti, a confidare nel ricongiungimento con le sorgenti fondamentali del rock ‘n’ roll e del blues, in un’epoca (gli anni ’80) e in un ambito geografico (Los Angeles) in cui l’immagine “scioccante” sembrava avere lo stesso peso della sostanza artistica.
Con la forza della “semplicità” e della schiettezza della sua musica, dopo un inizio un po’ difficile, la band conquistò successo e platee, per poi come spesso accade, anche a causa di ragioni che è superfluo ricordare, esibire qualche segno di cedimento e un rallentamento dell’attività, fino alla tragedia del 2003 (durante un loro concerto, il locale dove si esibivano prese fuoco causando numerose vittime, tra cui il loro chitarrista Ty Longley), che rischiò di determinare la fine del gruppo.
Lo spirito dell’hard-blues più autentico evidentemente non è facile da arginare (ci sarà anche qualche motivazione maggiormente pragmatica, ma preferisco optare per questa giustificazione “romantica”) e così i californiani tornano a diffondere quel suono ereditato dalla tradizione britannica ed arricchito da un’estensione melodica tipicamente yankee, divenuto da ormai parecchio tempo il loro tipico trademark.
Sì, perché “Back to the rhythm” appare davvero come la continuazione di un percorso intriso di feeling e intensità, scongiurando il rischio, sempre presente in queste situazioni, che l’entusiasmo “primordiale” sia sostituito dalla routine o dal ricorrere sfacciatamente a comode soluzioni di “mestiere”.
Lo Squalo Bianco è naturalmente “cresciuto” e rispetto ai suoi esordi è progressivamente diventato leggermente più “accomodante” (vedasi un sound che indugia abbastanza spesso in atmosfere soffuse e rilassate, comunque di grande suggestione), ma dimostra pure di sapere “mordere” ed essere tremendamente contagioso, sotto la direzione altamente competente di Jack Russell e Mark Kendall, due veri bluesbreakers dalla enorme sensibilità e dallo straordinario carisma.
“Back to the rhythm”, “Take me down” e “Still hungry” trascinano e graffiano con efficacia, “Here goes my head again” avvolge con la sua ammaliante carica melodica, la quale diventa pura magia languida in “Play on”, in “I’m alive”, nelle delizie acustiche di “How far is heaven?” e “Just yesterday”, si converte in vibrante ardore blues nelle appassionanti “Was it the night?” e “Neighborhood” o ancora si offre con le sembianze di un irrefrenabile r ‘n’ r Stones-iano in “Standin’ on the edge”, ricordando, a chi eventualmente se ne fosse dimenticato, di quanta classe e preparazione specifica siano dotate le movenze di questo ancora “temibile” pesce predatore.
Particolarmente abili nell’arte del “remake” (Ian Hunter, gli australiani The Angels, Small Faces, Led Zeppelin, Hendrix, Who, …) i Great White confermano la loro fama scegliendo stavolta la celebre “30 days in the hole” e realizzando una bonus track per il mercato europeo assai vitale e convincente, che si affianca per valore e credibilità a quanto già applicato dai Mr. Big sullo stesso classico targato Humble Pie, del resto dai nostri già omaggiati in “Recovery live!” con una brillante versione dell’ancora più nota “I don’t need no doctor” (a sua volta trattata con dovizia anche dai WASP).
Tutto molto bello ed emozionante, che candida quello del Grande Bianco come uno dei lavori di blues rock più riusciti dell’anno...niente male per dei “signori” giunti ormai al venticinquesimo anno di onorata carriera.