Copertina 7

Info

Anno di uscita:2000
Durata:58 min.
Etichetta:EMI

Tracklist

  1. ...INTO THE LIGHT
  2. RIVER SONG
  3. SHE GIVE ME...
  4. DON'T YOU CRY
  5. LOVE IS BLIND
  6. SLAVE
  7. CRY FOR LOVE
  8. LIVING ON LOVE
  9. IDNIGHT BLUE
  10. TOO MANY TEARS
  11. DON'T LIE TO ME
  12. WHEREVER YOU MAY GO

Line up

  • David Coverdale: vocals; guitar
  • Doug Bossi: guitar
  • Denny Carmassi: drums
  • Earl Slick: guitar
  • Reeves Gabrels: guitar
  • Dylan Vaughan: guitar
  • Danny Saber: guitar, bass
  • Marco Mendoza: bass
  • Tony Franklin: bass
  • Mike Finnigan_organ
  • Derek Hilland: keyboards
  • John X. Volaitis.keyboards
  • Linda Rowberry: vocals
  • Jimmy Z: harmonica

Voto medio utenti

"Più si ingrossava la mole dei miei capelli, più i dischi dei Whitesnake vendevano. Non rinnego assolutamente nulla, ho scritto pezzi formidabili assieme al gruppo nella seconda metà degli anni 80 . Però, ad un certo punto, mi sono guardato allo specchio e mi sono chiesto dove fosse finito il vero me stesso".
Queste le parole di David Coverdale, tra una domanda e l'altra, per presentare il suo album solista "Into The Light". Non un'accusa verso "1987" e "Slip Of The Tongue", ci mancherebbe; soltanto un pazzo potrebbe mettere in discussione le opere che lo hanno trasformato in un plurimilionario.
Direi più che altro una lucida disamina di ciò in cui si erano trasformati i Whitesnake, dopo che canzoni quali "Still Of The Night" e "Here I Go Again" avevano dominato in lungo e in largo le classifiche e monopolizzato il canale di MTV. Una macchina da dollari spietata, ed anche i "miseri" due milioni di esemplari di "Slip Of The Tongue" sparsi per il pianeta, venivano inquadrati come un palese fallimento, se confrontati alla decina di "1987". Gli Eighties sono stati, lo sappiamo, gli anni del benessere, del sogno, dell'ostentazione, ed ogni cosa veniva misurata in profitto: se da una parte questo atteggiamento portava anche i musicisti a cercare sempre nuovi limiti di perfezione, allo stesso tempo capisco che un vero artista si sentisse frustrato nell'essere giudicato soltanto in base al fatturato e non alla bontà del proprio operato.

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Già "Restless Heart" (1997) avrebbe dovuto uscire soltanto a nome David Coverdale, ma la Geffen impose un'uscita sotto il banner Whitesnake, probabilmente per cercare di asciugare le lacrime delle vedove del "marchio Serpens Albus". Allo scoccare del nuovo millennio, l'ex voce dei Deep Purple riesce finalmente a coronare il sogno "intimo" di tornare in proprio, senza dover rendere conto a niente e nessuno. "Into The Light" è un disco coerente, l'eterogenea scaletta del succitato "Restless Heart", che cercava (per ragioni contrattuali) di tenere un po' i piedi in due scarpe, è solo il ricordo di un compromesso. Un buon compromesso, per carità, ma sempre di compromesso si trattava. E dunque, per definizione, mai soddisfacente per l'autore. David tira infatti letteralmente fuori l'anima in "The River Song", malinconico ritratto autobiografico delle sue radici, incanta in ballad senza forzati orizzonti di obbligato mercimonio come "Love Is Blind" e "Don't You Cry", seduce nell'hard rock venato di blues e soul a titolo "Slave" e "Midnight Blue". I suoi più grandi fans lo sanno: quando si sente il respiro di Coverdale, a fare da collante tra una strofa e l'altra, tra un bridge ed un refrain, solitamente sta accadendo qualcosa di importante. O perlomeno di emozionante.

Di "Into The Light" piace soprattutto la semplicità, la volontà ferrea del cantante inglese di andare dritto al punto, senza orpelli o rivestimenti posticci. Del resto, quando un frontman possiede una voce che incanta appena apre bocca, non c'è bisogno di nessuna diavoleria tecnologica o di coadiuvanti esterni. Capisco che si tratta di un concetto difficilmente comprensibile oggi, in un'epoca in cui anche usare la favella è considerato un "vizio" preistorico, perché il mondo va avanti a furia di post, tweet e selfie. Personalmente resto convinto che, esaurita la "scorta" della Coverdale generation e di tutti i suoi colleghi, il panorama rock e metal sia destinato ad una fine alquanto ingloriosa. Ma comprendo che si tratti di un tema "off-topic", come si suol dire tra le comunità di (s)connessi ventiquattro ore al giorno.

Non sarà sicuramente la sua prova da studio più significativa (qualitativamente) ed esaustiva (stilisticamente), tuttavia "Into The Light" ha il grande merito di riportare David sulla strada della composizione pura, fattore determinante per un talento cristallino come il suo. Non è poco: e se abbiamo potuto successivamente godere di un "Good To Be Bad" o di un "Forevermore", lo dobbiamo anche all'umiltà di ripartire da zero dimostrata in questa occasione.

Recensione a cura di Alessandro Ariatti

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