Considerato non del tutto giustamente il testamento artistico di
Freddie Mercury, “Innuendo” arriva alla fine di un periodo di intensa attività da parte del cantante britannico, iniziato con quel gioiello (mai sufficientemente valorizzato) di “Barcelona” (inciso con Montserrat Caballé) nel 1988 e proseguito con “The Miracle” l’anno successivo. Nonostante le gravissime condizioni di salute di Mercury (morirà circa dieci mesi dopo la pubblicazione dell’album qui recensito), si tratta di uno dei dischi più “di gruppo” della formazione inglese (non a caso i brani portano tutti la firma “Queen” e non quella dei singoli membri). Già dai primi secondi dell’elaboratissima title-track (spesso accreditata come la “Bohemian Rhapsody” degli anni Novanta) si intuisce quella che sarà l’atmosfera generale del disco, un po’ tragica, un po’ epica e lievemente “sinistra” (in questi momenti mi rendo conto di quanto sia difficile “descrivere” la musica). Per rendere meglio l’idea rimando al videoclip (secondo me uno dei più lucidi esempi di rapporto musica/immagine della storia del rock), un’opera d’arte fatta di figure di plastilina e riprese in stop-motion a ricreare un cinema in miniatura dove scorrono immagini di precedenti video della band alternati a spezzoni di filmati storici. Dal punto di vista compositivo, senza timore di smentita, “Innuendo” è l’apice compositivo dei
Queen, un tour-de-force di generi e stili dove momenti duri (penso a “Headlong” e “The Hitman”), si alternano ad altri più progressivi e sinfonici (la già citata title-track con l’intermezzo dell’ospite Steve Howe degli Yes alla chitarra classica), passando per le più classiche ballad firmate Taylor/Mercury (“These Are the Days of Our Lives” e “Don’t Try So Hard”) e momenti più ricercati (“I’m Going Slightly Mad” e “Delilah”). Si poteva fare di più? Nì. L’impressione che ho avuto dopo anni di ascolti di “Innuendo” è che la band avesse “fretta” di concluderlo (e conoscendo le condizioni al contorno è anche facile capire perché), impressione motivata da una produzione non proprio cristallina e un po’ impastata per i canoni dei Queen (fate caso in particolare alla voce di Freddie, stranamente “brillante” e “chiara” rispetto alla discografia precedente). Questa considerazione incide in qualche modo sulla valutazione finale? Assolutamente no. Non confondiamo il fumo con l’arrosto, qui di arrosto ce n’è da fare indigestione.
God Save the Queen.A cura di Gabriele Marangoni