Il 18 novembre 2020
la gloriosa pagina Facebook di Metal.it ci ha doverosamente ricordato che nella stesso giorno di 32 anni prima vide la luce
Kings of Metal.
Come mi è già capitato approcciando altre recensioni past, anche in questa occasione vengo colto da una sensazione di dubbio, se non quasi di disagio: cosa si può scrivere che non sia stato scritto, cosa si può dire che non sia stato detto, cosa si può analizzare che non sia stato analizzato nel momento in cui ci si confronta con un'opera universalmente nota e clamorosamente iconica?
Nel 1988 i
Manowar sono ormai una realtà dominante nel panorama mondiale, fieri portabandiera di un verbo che non accetta compromessi e di uno stile che non fa prigionieri; e credo di poter affermare con discreta sicurezza che con Kings of Metal i nostri raggiunsero il loro apice non solo di successo e notorietà, ma soprattutto in termini concettuali.
Se
Into Glory Ride e
Hail to England palesano una maggiore compattezza, un livello qualitativo probabilmente più elevato ed una intensità epica fuori scala, qui abbiamo a che fare con quella che può essere considerata una vera e propria raccolta di inni immortali, partendo da tracce manifesto come la title-track e
Heart of Steel, soffermandoci sulla commovente solennità di
The Crown and The King, facendoci travolgere dalle sferzate testosteroniche di
Pleasure Slave, esaltando la nostra furia guerriera con
Hail and Kill e concludendo il nostro viaggio con l'accoppiata costituita da
The Warriors Prayer (brano narrato che prepara il terreno) e dalla celeberrima
Blood of The Kings.
Marchiato a fuoco da un
Eric Adams che spadroneggia con una prestazione vocale clamorosa, incendiato dai riff e dagli assoli di un
Ross The Boss al suo top, fondato sulle colonne di granito scolpite dalle martellate di
Scott Columbus, attraversato in lungo e in largo dalla debordante presenza di
Joey DeMaio, Kings of Metal è il disco che consegna definitivamente alla leggenda i Manowar, sancendo la loro eterna appartenenza al pantheon delle divinità metalliche.
Recensione a cura di
diego