Dopo averli conosciuti con il loro secondo lavoro “A night in the gutter”, attendevo con una certa ansia la nuova fatica discografica degli svedesi Dogpound, per comprendere se il “veramente bravi” da me utilizzato in quella disamina si sarebbe potuto trasformare in qualcosa di addirittura più gratificante.
Lo stile rimane fondamentalmente quello del Cd precedente, un hard rock melodico di scuola nordica, in cui i precetti acquisiti dall’imprescindibile rock adulto a stelle e strisce vengono piegati alla sensibilità nordeuropea, senza dimenticare un pizzico di contaminazione maggiormente “moderna” e “fisica”, espressa soprattutto tramite le chitarre costantemente adeguate dell’ottimo Micke Dahlqvist.
Le armonie e le strutture vocali condotte dall’eccellente Henrik ‘Hea’ Andersson sono ancora una volta un altro sostanzioso punto di forza del four-pieces scandinavo che diventa così, tanto per offrire qualche punto di riferimento molto conosciuto a chi non li avesse ancora inclusi nei propri ascolti, una sorta di fusione tra l’esuberanza melodica dei Damn Yankees, il groove dei King’s X e qualche sporadico richiamo “barocco” di marca Rush/Saga, realizzando un ibrido piuttosto godibile ed appagante nel suo complesso, non troppo lontano, inoltre, da certe scelte attitudinali di un gruppo come gli Harem Scarem.
Riprendendo la mia valutazione sul Cd precedente, non c’è stato, però, quel “salto di qualità” auspicato, nel senso che le partiture sono tutte parecchio buone, e hanno tutte le qualità per farsi apprezzare dagli estimatori del genere, ma senza raggiungere, se non in rari casi, quella forza persuasiva e quella “memorabilità” che consente ad un disco di conquistarsi il prestigioso appellativo di “Grande”.
Non bastano, infatti, l’agilità di “My own sin”, “Blind” e “You and me”, la verve vaporosa di “Born a winner”, il vigore iridescente di “Human hologram” o l’attraente architettura di “Not welcome here” (e all’elenco si sarebbe potuto aggiungere anche il gradevole tocco psichedelico di “Undivided”, se non fosse stato per uno sviluppo non completamente convincente), per fare davvero la “differenza” in un mercato sempre più livellato verso posizioni medio-alte.
Non resta, dunque, che confermare appieno il giudizio in ogni caso abbondantemente positivo espresso per “A night in the gutter”, nell’attesa che arrivi quel definitivo slancio compositivo, sicuramente nelle possibilità dei nostri, capace di farli concorrere in maniera veramente attendibile per l’agognato podio di categoria.
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