BREVE CAPPELLO INTRODUTTIVO
a cura di Pippo 'Sbranf' Marino
E' con vera gioia che noi della Redazione di Metal.it riusciamo ad esaudire un piccolo desiderio di un nostro utente: pubblicare una recensione sul nostro portale. E' una gioia, dicevo, perché ciò dimostra, come peraltro da me più volte ribadito, la grande qualità del nostro pubblico, che ascolta e ama il metallo con cognizione, preparazione, assoluta padronanza, spesso quanto e più di noi. Ben venga allora la recensione dell'immortale
"Permanent Waves" ad opera di
Ennio, utente attento e grande amante dei tre canadesi. Bravo Ennio!!!
“One likes to believe in the freedom of music,
But glittering prizes and endless compromises
Shatter the illusion of integrity”Un emigrato della ex-Jugoslavia che non eccelle a scuola, aspirante idraulico; un emigrato ebreo-polacco figlio di sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti, perseguitato a sua volta nel quartiere suburbano in cui vive; e infine un canadese timido e schivo, che non sa pattinare e passa tutto il suo tempo libero in biblioteca a leggere… signore e signori from Toronto, Canada…
Rush!
Contro ogni pronostico, da questi tre elementi nasce un grande gruppo: nasce dalla semplicità, dall’autenticità di intenti e dalla determinazione. Sì, perché questi tre adolescenti (disadattati, distanti ed esclusi dalla comunità degli altri coetanei) hanno un’idea, un sogno fisso che coltivano con forza e desiderio (forse) di rivalsa nei confronti di tutto e tutti. Il sogno è quello di emulare gli idoli (Led Zeppelin e Who su tutti) e di suonare quella musica, l’unico elemento che li accomuna in questo senso di alienazione, musica che diventa la via d’uscita alla vita grama di periferia. Nascono i Rush uno degli ultimi, grandi power trio della storia del Rock.
Il disco di cui mi piacerebbe parlarvi è
Permanent Waves. L’anno di uscita è il 1980 e i Nostri si sono già guadagnati da un po’ un seguito di fedelissimi, grazie all’incessante attività live e alla pubblicazione di 2112, disco spartiacque della loro carriera, che consente loro di emanciparsi dalle pressioni della casa discografica e di ottenere maggiore libertà artistica e maggiore controllo sulle scelte professionali.
1980. È davvero significativo che questo disco arrivi all’apertura di una nuova decade.
Dal punto di vista musicale Permanent Waves avvia un processo di allontanamento dall’attitudine compositiva prog più classica e manifesta la volontà di cambiamento del trio, che ha concluso carico di stanchezza e di tossine l’estenuante esperienza di composizione e registrazione di Hemispheres e vuole annunciare forte e chiaro che si è deciso di intraprendere un nuovo percorso.
Innanzitutto i Rush abbandonano la struttura che ha dominato i dischi prodotti fino a quel momento (lunga suite iniziale, a coprire tutto il lato A del vinile / lato B fatto di composizioni più brevi) e aprono con esplicita dichiarazione di intenti con l’inno
The Spirit of the Radio, un brano più snello, con un giro di chitarra iniziale che esalta le doti di Alex Lifeson e che trascina la sezione ritmica Lee/Peart nella consueta esecuzione di precisione chirurgica, ma al tempo stesso potente ed energica e mai sterile nel suo tecnicismo. Nel brano si affacciano prepotentemente le influenze di Neal Peart, innamorato dei nuovi ritmi a là Police, che riesce con assoluta nonchalance ad innestare un ritmo reggae nel bridge della canzone, prima che l’assolo carico di wha wha di Lifeson riporti la chitarra in primissimo piano. Ottimi come sempre gli innesti di moog e di synth da parte di Lee (eccellente bassista), che conferiscono al brano un suono ancor più originale e moderno.
Il disco prosegue con
Freewill, brano che sembra confermare (apparentemente) la tendenza più accessibile dei nuovi brani dei Rush. Anche qui l’equilibrio sembra perfetto: il gruppo snocciola con estrema facilità riff incisivi di chiara matrice hard rock, li miscela con le grandi melodie partorite dall’inesauribile Geddy e fa girare il tutto con ritmi ora più serrati ora scioltissimi, che accompagnano l’ascoltatore in cinque minuti di musica adrenalinica, per un pezzo che diventerà presto un classico del repertorio live. Il meccanismo funziona come se fosse rodato da anni: la complessità compositiva e di esecuzione suona semplice e fruibile e non mostra alcun segno di “vecchiaia”, come altre produzioni prog di quel periodo, fossilizzate per la maggior parte in stilemi manieristici.
Jacob’s Ladder (riferimento biblico al sogno di Giacobbe, che vede una scala tra Cielo e Terra, da cui passano gli angeli) ci riporta su territori più classici per struttura (e lunghezza) del brano. Ma classico non significa banale, e il pezzo incede duro e cadenzato con atmosfera quasi plumbea in una descrizione lenta, visionaria e poetica dei fasci di luce che rompono un cumulo di nubi “pronte per la battaglia” ed aprono uno stralcio di cielo a cui gli uomini possano guardare per intessere i loro sogni e i loro pensieri.
Grande musica e testi intensi anche in
Entre Nous: l’intro, in cui le note del moog si intrecciano magnificamente all’arpeggio di chitarra, sfocia in una strofa dal ritmo incalzante e si trasforma poi in un ritornello acustico gradevolissimo. Non c’è niente di lineare, si viene emotivamente trasportati verso atmosfere e ritmi contrastanti nell’arco di pochi minuti, eppure tutto scorre anche questa volta in modo impeccabile.
La ballata del disco è
Different Strings. Il lirismo di Peart è ancora una volta spiazzante per profondità e per coraggio, ed è egregiamente sostenuto da un tappeto sonoro acustico ed elegante in cui fa capolino il suono di pianoforte, affidato allo storico collaboratore, Hugh Syme, designer e grafico dei dischi del trio canadese.
La chiusura di Permanent Waves è affidata a
Natural Science, per chi scrive un autentico capolavoro senza tempo. Nove minuti in cui la capacità strumentistica, compositiva ed evocativa di questo gruppo raggiunge un livello davvero elevato. Il brano, una sorta di riflessione sull’evoluzione e sul ruolo dell’uomo e della scienza, ci riporta all’alba della vita attraverso il suono della risacca marina che dà inizio alle danze. Su di esso si distendono chitarra acustica e voce entrambe riverberatissime, lontane nel tempo e nello spazio, sospese in un ricordo ancestrale comune a tutti noi. Le creature del mare si evolvono in creature terrestri e il ritmo cambia con decisione: un arpeggio distorto apre ad un tempo dispari che tiene il fiato sospeso, mentre la voce è filtrata da effetti di reverse molto efficaci. Poi il ritmo si trasforma ancora, si fa sempre più articolato e tutto il gruppo dà il meglio di sé: tre musicisti fantastici che sanno alternare momenti durissimi ad aperture melodiche disarmanti e godibilissime. Chitarra, basso e batteria letteralmente non hanno sosta in un brano finale trascinante e incredibilmente vario, che si chiude così come era iniziato, con la risacca del mare a simboleggiare la ciclicità della vita stessa.
Permanent Waves è il disco con cui ho conosciuto i Rush ed è per me quasi un “imprinting” indelebile. Rappresenta un punto di esile e quasi contraddittorio equilibrio fra prog tradizionale e nuove sonorità, che spaziano fino alle tendenze di musica minimale del periodo (come detto, non sono un mistero le influenze di Police e Talkin Heads su Peart e Lee) e rappresenta altresì un momento di passaggio irripetibile ed unico fra due epoche radicalmente diverse fra loro, ma che i Rush vivono senza traumi, intravedendo la grande opportunità di sperimentare liberamente. Permanent Waves è il disco che avvia un’evoluzione che troverà piena maturazione in Moving Pictures e che accompagnerà questi tre viaggiatori fino ai nostri giorni, in un altalenarsi incessante di musica e pensieri mai banali, di grandi concerti, di voglia di esplorare territori musicali sempre nuovi, di tragedie familiari e finalmente di rinascita personale ed artistica.
Questo disco, come il 90% della produzione dei Rush, è un capolavoro, Signori.
Recensione a cura di
Ennio