Fino a qualche tempo fa i The Peepshows parevano avviati a raccogliere la pesante eredità dei Turbonegro, il loro “Today we kill..tomorrow we die”, uscito nel 2001, li aveva visti protagonisti di un sound impostato sullo sporco ibrido metal-punk, una furia abrasiva priva di esitazioni.
Qualcosa di fondamentale dev’essere cambiato nel frattempo, perché il gruppo Svedese si ripropone oggi con un album dalle caratteristiche completamente differenti.
“Refuge for degenerates” parla la lingua del rock puro, una musica molto levigata, un taglio adulto che punta molto su innesti melodici e ritornelli orecchiabili, restando ugualmente ricco di vibrazioni rock’n’roll e di sentimenti settantiani in buona parte alimentati dai passaggi di tastiere di Henrik Wind, principale compositore della band.
E’ sufficiente l’opener “In the dirt”, uno di quei brani ad alta assuefazione che ti si impiantano nella mente e non ne escono più, per capire che l’influenza Turbonegro è completamente sbiadita, mentre si fanno largo similitudini con le ultime cose di The Hellacopters o, per chi li conosce, con i rockers carneadi americani Chrome Locust, anche loro abili nel coniugare classico hard ed attitudini melodiche senza scivolare nel dolciastro esangue. Da segnalare in questa canzone la presenza di Nicola Sarcevic (Millencolin), che di questo disco è anche produttore delle parti vocali.
A tratti i The Peepshows fanno pensare all’hard’n’roll battente dei primi Kiss (“Monochrome 76”,”Between a rock..”), in altri momenti addirittura ai The Clash di “Give’em enough rope”, forse per la particolare intonazione di Wolfbrandt nella delicata “Nailed to the ground” e nella robusta “Self degraded”, ma molte canzoni sfiorano sorprendentemente un maturo class rock (“Count me out”,”Midnight angels”,”Gimme bullets”,”Muddy waters”) dove gli spigoli più acuti vengono smussati per dare spazio a sonorità morbide ed al pulito lavoro delle chitarre.
Quindi un’evoluzione in senso melodico e songs che devono essere assaporate con tranquillità fino a quando, nella finale “When I fall”, il gruppo si lascia andare e ne viene fuori il miglior brano del lotto, un torrido hard dal retrogusto southern trascinato da una lead debordante. Meno positivo, invece, l’esperimento di ballad carezzevole “Where the roads have no end”, esplorazione di un territorio ancora troppo distante dalle radici di questa formazione.
E’ una svolta stilistica che deve essere certamente ancora affinata, un buon disco ma di transizione, dove gli Svedesi mostrano di essere eclettici e di avere qualità che potranno concetizzarsi ulteriormente nei futuri lavori.
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