Il nuovo album dei
King’s X ha richiesto svariati e svariati ascolti, prima di riuscire a schiudere le sue qualità; come un’ostrica che tiene serrate le valve, prima di concedere all’ostinato pescatore la sua perla più bella.
Il trio statunitense, per chi non ne fosse informato, suona ormai da più di vent’anni un hard rock molto particolare, inserito da molti, per le tematiche affrontate, nel Christian Metal, ambito musicale che peraltro li allontanò dopo la dichiarazione di omosessualità da parte del bassista/cantante
dUg Pinnick.
Il lavoro che oggi ci troviamo tra le mani,
“XV”, parte proprio dai buoni propositi seminati dal predecessore
“Ogre Tones”, risalente a tre anni fa. L’opener
“Pray”, manco a farlo apposta, tuffa subito le mani negli argomenti religiosi poc’anzi citati, regalandoci uno dei brani più muscolosi di quest’album, insieme alla traccia n° 6,
“Alright”, peraltro scelta come primo singolo.
L’uso di effetti di distorsione su basso e voce, oltre che sulle chitarre del sempre ottimo
Ty Tabor, è una costante presente in molti dei pezzi più pesanti della discografia dei King’s X, e di certo il risultato spinge verso una ricerca sonora in cui la pesantezza è data più dal mood del pezzo, che dalla velocità. A contribuire alla strana miscela sonora ci pensa, peraltro, anche lo strano basso Lakland di mr. Pinnick, un 4 corde con due “cantini” per corda, che diventa così un basso a 12 corde, in cui i cantini aggiungono armoniche alte alle note suonate, quasi sempre, col plettro.
Scendendo di qualche metro nell’immersione sonora in questo disco, scopriamo come le influenze di questo “XV” siano agilmente rintracciabili in un post-rock molto caro ai Soundgarden, agli Ugly Kid Joe per le parti più ‘mellow’ (come per
“Blue”), come anche, in certe linee vocali, a sfumature di colore di beatlesiana memoria (
"Repeating Myself", molto Neal Morse-oriented). Un mix quantomeno insolito, ammetto, ma non per questo meno affascinante.
Ciò non toglie che questo “XV” non faccia dell’immediatezza la sua dote migliore: i brani hanno bisogno di essere assaporati, di respirare come un buon vino; un ascolto superficiale o distratto rischia di non fornire la giusta quantità di informazioni, come era successo al sottoscritto, dopo i primi due ascolti.
Molto bella la conclusiva
“Go tell somebody”, anthemica nell’incedere e carica di classe ed energia; sono i pezzi più muscolosi quelli immediatamente convincenti. Se è vera questa tesi, sarà dunque anche vero che la maggior parte dei brani di “XV”, hanno tempi di digestione molto alti; una costante di questo disco, che alla fine rischia di lasciare molti punti interrogativi, e poche certezze. Non mi sentirei, quindi di sbilanciarmi più di tanto, perché una proposta sonora del genere è sicuramente schiava del gusto soggettivo dell’ascoltatore, seppur (bene o male) inquadrata in un genere ben preciso. Consiglio caldamente di ascoltare i brani, anche sul
MySpace della band, per farsi un’idea più precisa di questo disco, affascinante ma strano come un quadro di Mirò.
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