“Freak out”, il debutto di Chris Catena licenziato nel 2004, era stato per il sottoscritto un vero e proprio “sorpresone”. Un cantante italiano praticamente “sconosciuto” ai più che si “permetteva” una lista d’ospiti da Gran Gala del Rock e che realizzava un lavoro di hard classico dall’incredibile spessore, non era stata, infatti, una faccenda da poter passare inosservata a chi come me ama e segue questi suoni già da qualche tempo.
Grande attesa, dunque, per il follow-up di quel pregevole dischetto ed oggi che “Discovery” è finalmente nel deck del lettore Cd, la mia reazione non è poi troppo dissimile da quella alimentata da quel debutto, ma per ragioni parecchio diverse.
Partiamo, innanzi tutto, dal fatto di avere a che fare con un concept album, una scelta espressiva non così comune all’interno di queste coordinate sonore, per poi arrivare ad una modifica stilistica che oltre a mantenere intatto il suo feeling di hard-funk-blues “primitivo” si colora di nuove nuance ora vagamente tecnologiche, ora quasi “progressive” e “cosmiche”, come se, semplificando in modo estremo il concetto, i Whitesnake avessero deciso di inserire nel loro tipico suono anche iridescenti bagliori di retaggio Floyd-iano.
Al di là di paragoni un po’ “spericolati”, è evidente il tentativo di Catena di affrancarsi dalle eventuali accuse d’assoluta “immobilità” artistica, maturando un suono in bilico tra una sanguigna vena hard-rock e stimoli inediti, che ammiccano a soluzioni musicali in qualche maniera maggiormente “moderne” o comunque considerabili come una sorta d’evoluzione di quelle per cui era conosciuto finora.
L’operazione funziona egregiamente e anche se, per poter assimilare completamente tutte le sue numerose sfumature sonore, è necessario un pizzico di maggiore “applicazione” all’ascolto, “Discovery” si rivela sicuramente all’altezza del suo predecessore, con Catena e i suoi illustri ospiti (anche in questo caso la lista è ricca e di nobile lignaggio: Bobby Kimball, Bruce Kulick, Earl Slick, Pat Travers, Carmine Appice, Tony Franklin, Tommy Denander e Timothy Drury …) che concretizzano quello che alla fine si può tranquillamente definire “un signor disco”.
A voler essere pignoli, bisogna ammettere che il platter manifesta qualche piccola flessione nella sua seconda parte e che anche la produzione, un po’ “soffocata” (ed è abbastanza strano per gli standard di lavoro di Daniel Flores!), avrebbe potuto essere più incisiva, ma ciò non toglie sostanziosi meriti ad un Cd che deve essere premiato oltre che per il suo intrinseco valore, altresì per il “coraggio” e la voglia di rinnovamento dimostrata dal suo artefice, in un momento in cui sarebbe stato sicuramente più “facile” continuare a sviluppare la propria vocazione musicale in una forma più rigorosa e “tradizionale”.
Tra i brani segnalazione necessaria per “Freedom bound”, alimentato da un gagliardo gusto “attualizzato”, “The chosen one”, con Chris e Bobby Kimball impegnati in una credibile interpretazione ‘Snake oriented, “The spacefreak king”, un numero dal tocco “oriental-spaziale” gratificato da un fascinoso refrain, e ancora per “Hot damn mercy man”, dal vibrante afflato seventies, “Resurrection” e “Forgive me” pregne di infettive pulsazioni di soul mutante, “Open letter”, intensa e affascinante e “Comin’ home”, immaginifica conclusione di un “viaggio” piuttosto sorprendente e avvincente.
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