Sarà sicuramente un mio “problema”, ma istintivamente tendo a dubitare dei gruppi che vengono presentati come il “futuro” di un qualche genere musicale, ritenendo, inoltre, che questo tipo di “sparate” rischi pure di portare un po’ “sfiga”, indipendentemente delle reali capacità artistiche dei destinatari di tale caratterizzazione (pensiamo alla carriera non esattamente prodiga di successi dei brillantissimi Confessor, per esempio!).
Quando leggo, sulla copertina del promo di questo “Snake wine”, che i Light Pupil Dilate sarebbero “[…] the future of estreme heavy music”, pur stimolato da una così altisonante definizione, comincio a “preoccuparmi” sia per loro, sia per le mie orecchie.
Per fortuna perlomeno il mio apparato uditivo è salvo, poiché, in effetti, il terzetto di Atlanta si rivela promulgatore di un suono non facilmente inquadrabile, capace di mescolare con buona attitudine metal, hard-core, (post) punk, noise, vaghi bagliori prog e (plumbeo) hard rock, il tutto applicando un certo gusto “matematico” ad una manciata di composizioni che in questo modo, se non completamente “nuove”, appaiono senza dubbio fresche e abbastanza attraenti.
Ecco che i modelli, identificati tra gli altri in Converge, Slayer, No Means No, Hot Water Music e Fugazi (ai quali aggiungerei anche Tool, Don Caballero, Orange 9mm e Cave In, talvolta affioranti in questo piacevole marasma sonoro, oltre che i Mastodon, con i quali condividono la terra d’origine e il co-produttore, Matt Washburn), risultano più riferimenti di massima che non veri e propri archetipi a cui rivolgersi in maniera acritica.
Insomma, i Light Pupil Dilate non amano vivere di rendita, mutuando esclusivamente strutture armoniche altrui e il loro modo di assemblare un proprio suono appare intrigante e intelligente, fatto non così comune nel nostro sempre più omologato business discografico.
Dall’altro lato, però, tanta intraprendenza e un numero sufficientemente elevato d’illuminate intuizioni, non bastano (ancora) per considerarli tout court un elemento veramente “rivoluzionario” nella scena rock internazionale, perché le canzoni non sono tutte focalizzate a dovere e in mezzo a tanta “roba” perdono leggermente di vista quello che in fondo si chiede ad un disco, per quanto complesso e imprevedibile possa essere: la “gradevolezza” e la fluidità d’ascolto.
“Prana”, “Big open”, la ferina “Phlebitis”, “Dive” e il mio personale best in class, l’eccellente “Selfless”, sono i momenti migliori di un albo comunque parecchio interessante, per una band dalle notevoli prospettive, che con qualche passo nella giusta direzione potrà davvero fare cose egregie.
Ah, dimenticavo, tornando al discorso iniziale … Good luck, guys!
Non è ancora stato scritto nessun commento per quest'album! Vuoi essere il primo?