Eric Larson non è soltanto il lungocrinito e barbuto chitarrista degli Alabama Thunderpussy, forse il gruppo più celebrato della recente scena southern-stoner. Nella sua sludge-band parallela, i Kilara, lo troviamo nelle vesti di batterista/cantante, e dietro le pelli era già nel gruppo punk degli Avail, dal quale sono poi nati gli A.T.P.
Quindi musicista completo ed eclettico, ma anche profondo, intelligente ed impegnato, esatto contrario dello stereotipo del rokkettaro vanesio e menefreghista che ciancia solo di donne, birra e motorette.
Larson infatti non ha mai nascosto il suo forte interesse alle questioni politiche e sociali, espresso con la frequentazione degli ambienti di attivismo giovanile. Questa sua personalità complessa, unita al costante desiderio di comporre ottima musica, doveva trovare ulteriore sfogo.
Lo ha capito la Small Stone, su gentile concessione Relapse, che ha indotto il chitarrista alla pubblicazione di questo album solista. Quando dico solista intendo proprio che il Virginiano si è occupato praticamente di tutto, con il solo aiuto del fido compare Sam Krivanec (A.T.P./Kilara) al basso e di alcuni eccellenti contributi vocali dell’ospite Kachina Oxendine e dell’altro partner Bryan Cox, drummer A.T.P.
Il materiale inserito in “The resounding” era pronto da tempo, alcune canzoni risalgono addirittura al 1997, ma non era adatto né per la formazione principale né per i vari progetti alternativi.
Non che si tratti di roba scadente, anzi l’album è assolutamente piacevole e di ottima qualità. Semplicemente Larson ha dato qui sfogo al suo lato più riflessivo ed intimista, offrendo uno spettro di soluzioni più ampio del prevedibile e tenendosi alla larga dallo sbarramento rumoroso fine a se stesso. C’è il coraggio di lanciarsi in alcune ballate acustiche limpide e sofferte come “Happy new war”, clamorosamente attuale, o la splendida “Unresolved” eseguita in duetto con la già citata Oxendina, cosa non usuale per chi è abituato a suonare heavy di monolitico impatto.
Intendiamoci, non sono assolutamente love-songs, direi piuttosto riflessioni militanti, a tratti dal taglio marziale come “Of storms”, oppure con svolgimento in drammatico crescendo vedi l’elettroacustica “Make it”. Soprattutto sono canzoni belle ed appassionate, che rivelano il lato maturo e ponderato di questo personaggio lontano dal carrozzone del rock da burletta.
Non si tratta comunque di un disco dalla scarsa forza penetrativa, le tracce che non sfigurerebbero su “Staring at the divine” non mancano di certo.
“Scoliosis” è rabbia e potenza nella moderna visione confederata, “I feel like Ted Nugent” ha ritmo e riff così trascinanti che neppure il “Gonzo” di Detroit si potrebbe lamentare. C’è la tetra e massiccia “I always end up..”, c’è il cadenzato hard di “Mine never was”, soprattutto il lungo e schiacciante finale di “Burning fast” in puro stile A.T.P.
Ma sono due i brani che inducono ad una valutazione ancora più largamente positiva: “Hardest thing to write about”, dilatato e sofferto episodio che trasuda malessere esistenziale trattando di difficili rapporti interpersonali, e “Our voice”, strepitoso rock minimalista con un intenso uso di vocals quiete e penetranti, corredato da liriche di forte coscienza sociale. Nel caso di Larson non si può glissare sull’importanza dei testi, che incrementano lo spessore del lavoro ma che purtroppo non sono stati inseriti nel booklet, cosa assai spiacevole.
Abbiamo quindi un disco di ottima levatura, dal songwriting curato, musicalmente vario e robusto, che offre anche spunti di riflessione oltre alla ruvidità heavy e che non è riservato esclusivamente ai fans degli A.T.P. ma dovrebbe anzi piacere ad un pubblico eterogeneo che vuole musica seria e ben fatta.
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