I
Sacred Oath, band statunitense nata nel 1984 e tuttora attiva, rappresentano la perfetta incarnazione di quelle entità che avrebbero avuto tutto per, e invece alla fine insomma.
Ho volutamente 'smozzicato' a livello sintattico il concetto precedente - a onta e spregio dell'Accademia della Crusca - per rendere in modo ancor più 'tangibile' quello che intendo dire e che comunque di sicuro avete già intuito.
Diversamente da tanti altri gruppi rimasti confinati in zone più o meno d'ombra, i nostri possono vantare una discografia tutto sommato nutrita (9 dischi, 2 live, 1 best of) e una carriera (imperniata sulla presenza costante del cantante e chitarrista
Rob Thorne, a tutti gli effetti leader della formazione) che - con l'eccezione di un 'buco' significativo a cavallo tra la fine degli anni '80 e i primi anni 2000 - risulta relativamente omogenea, trovando casa in quella terra di mezzo nota ai più come underground (che poi è quella in assoluto più popolata perché per un nome che raggiunge il successo ce ne sono 10, 100, 1000 che quella strada non riescono ad imboccarla ma non per questo si arrendono e mollano microfono e strumenti).
Con
A Crystal Vision i Sacred Oath danno alle stampe nel 1987 il loro debutto (demo esclusi) e fanno immediatamente centro, sfornando quello che ancor oggi - a quasi 35 anni di distanza - viene ritenuto unanimemente - e a ragione - il loro capolavoro.
A ragione perché si tratta della classica ciambella riuscita con il buco: sorretto da un songwriting ispiratissimo e da prestazioni assolutamente impeccabili da parte di ciascuno dei componenti (oltre al già citato Thorne abbiamo
Glen Cruciani all'altra chitarra,
Pete Altieri al basso e
Kenny Evans alla batteria), e solo leggermente penalizzato da una produzione un po' ovattata, questo disco ha lo sconcertante potere di incantare per la sua qualità complessiva - francamente superba - e allo stesso tempo di lasciare l'amaro in bocca al pensiero del potenziale che lascia scorgere ma che, a conti fatti, non ha mai trovato piena realizzazione nel prosieguo del cammino.
L'appartenenza stilistica va senza dubbio ascritta alla grande famiglia dell'US power, ma non mancano quelle suggestioni a volte NWOBHM, a volte thrash, a volte quasi epiche e progressive, che contribuiscono in modo fondamentale alla definizione di una proposta radicata nella tradizione eppure ricca di personalità grazie alle sapienti scelte melodiche e alla cangiante articolazione delle strutture portanti.
Un titolo, in definitiva, da riscoprire senza indugi, perché la nostalgia sarà pure un sentimento agro-dolce e a volte si può soffrire ad abbandonarcisi, ma trascurare un'opera di tale valore condannandola all'oblio immeritato è delitto di cui non vorremo certo renderci complici, giusto?
Recensione a cura di
diego
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