Copenhell 2024: a volte é necessario allontanarsi da casa per trovarla davvero

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Pubblicato il:17/07/2024
A volte é necessario allontanarsi da casa per trovarla davvero.
O quantomeno per avere stimoli, per nobilitare quotidianità sovente soffocanti. Il Copenhell 2024 per me non é stato solo "un" festival, bensì il primo festival europeo - a 41 anni suonati - e ancora prima un miraggio.
O meglio, una scelta condivisa con un amico, che poi ha però ritratto la mano. Ma il sasso ormai era stato lanciato ed i contatti con la solerte organizzazione presi, percui, con la disponibilità della mia ragazza e la risoluzione di alcune necessità lavorative, sono partito per Copenaghen.

Il festival si trova nella zona nord della città, all'interno delle 4 aree del "City center", denominazione riscontrabile se si acquista l'abbonamento sull'app Dot.
La distanza che abbiamo coperto quotidianamente dal sud del centro all'area del festival tramite bus é quantificabile in circa 50 minuti. La maggior parte dei quali percorsi con il 666 bus, riconoscibile dalle corna diaboliche installate sullo stesso. Un'esperienza nell'esperienza, prodromica al festival. I bus in questione, ovviamente, erano pieni di metallari diretti al Copenhell.

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Ma qui la prima novità: la percentuale di beceri e maleducati é ridotta all'osso. I danesi, o comunque gli stranieri presenti (pochi, pare, gli italiani), vivono la loro passione con l'educazione che - evidentemente - il loro sistema instilla fin da giovani. Credetemi: non sono solo parole.
É una quotidianità che spinge anche tanti italiani a provare a vivere a Copenaghen, un luogo in cui la percentuale di "femminicidi" é irrisoria, in cui i diritti per le coppie gay sono realtà dal 1933, in cui l'università é gratuita, in cui se vai in galera la paghi (cashless, of course), in cui se sbagli paghi caro e i cocci sono tuoi. Così impari.
E qui pare imparino davvero.

Veniamo al festival. Da subito é fedele alla mappa, che ho guardato con cupidigia anche quando credevo non ci sarei potuto andare. Lo spazio a disposizione é enorme, con circa 40 food-truck e punti ristoro, decine di bar, tanti negozi e quattro palchi attivi dalle 12 a mezzanotte circa. L'organizzazione delle band é ottima, con al massimo 2 concerti in contemporanea e con la scelta degli orari e delle band da visionare ulteriormente facilitata dall'app ufficiale dell'evento.

Mercoledì 19 giugno


Il primo giorno, mercoledì 19 giugno, il mio Copenhell é cominciato verso le 16,15 con il concerto di Corey Taylor e della sua band sull'Helviti, il palco principale, ovviamente il più grande.
Non sono un fan degli spazi esagerati, ma la proposta della voce degli Slipknot, complice una resa audio adeguata, é stata debitamente valorizzata in questa situazione. Non sono mancate una dedica accorata alla moglie, sottolineando che senza di lei, forse, non sarebbe stato qui.
E tornano alla memoria le ultime dichiarazioni di Taylor, e il video in cui piange sconfortato per una battaglia contro uno stato di salute mentale che forse è un aspetto ancora più difficile da comunicare e con cui empatizzare rispetto a molte problematiche fisiche.
Anche alla luce di questo i suoi ringraziamenti accorati vengono percepiti da tutti come assolutamente sinceri. Un buon inizio, per chi, come il sottoscritto, dal metal è partito con l'intenzione di una verità che, sovente, almeno per come percepisco oggi la musica, viene sepolta sotto quintalate di cliché e di atteggiamenti che sono più affini allo show che ad una comunicazione reale e profonda delle "personal struggles" di cui anche Taylor spesso scrive nelle sue canzoni.
Parlando di setlist, 5 i pezzi proposti da questo suo progetto solista, 3 invece quelli della band "principe", quegli Slipknot che hanno energizzato i primi 2000 e sconvolto più di qualcuno, tra cui il sottoscritto. Ma i brani proposti provengono dai periodi successivi. Tra questi l'ottima Duality, cantata da tutti, ma pure Before i forget e Snuff. Non sono mancati tre pezzi degli Stone Sour e una cover di SpongeBob SquarePants theme.
Sì, avete letto bene.

Tempo di fare un piccolo giro per capire dove siamo e perdere gli ultimi brani degli Empire State Bastard ed ecco che arrivano - ancora sul palco più importante - i veterani punkrockers The Offspring. Si tratta di uno di quei gruppi che giustifica l'aggettivo trasversale per definire il Copenhell. Ma anche uno dei più grossi in assoluto della manifestazione, almeno gettando un occhio al passato, con l'aiuto, e al contempo la conquista, di MTV, che vent'anni fa ha fatto conoscere i loro tre singoli più celebri tratti da Americana a tutti. Anche a chi - come il sottoscritto - all'epoca era interessato alla musica solo in maniera superficiale.

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E quindi la prima risposta è sì, gli Offspring hanno suonato tutti e tre quei singoli (Why don't you get a job, Pretty fly for a white guy, The kids are alright) aggiungendo anche un altro brano come Staring at the sun. È ancora sì, suonano bene, tengono il palco con disinvoltura e rendono l'esibizione ulteriormente godibile, con l'inserimento di alcuni extra che comunque non hanno lasciato indifferenti, come stelle filanti, vagonate di coriandoli e gonfiabili di vario tipo. Il gruppo non si è risparmiato sia nell'interazione con il pubblico, mostrandosi ironico nei confronti del proprio manager che non è riuscito a portarli al Copenhell prima, quanto nel proporre brani anche meno conosciuti da chi non li segue più pedissequamente. Tra questi quattro da Smash (vi dice niente Come out and play?), due da Conspiracy ed altrettanti da Splinter. C'è stata energia anche per un paio di cover, tra cui l'amatissima Blitzkrieg Bop dei Ramones.

Salutiamo questa propaggine punk del festival e ci dirigiamo alle birre, disponibili davvero ovunque e senza file particolari. E mentre prendo la seconda (o terza?) Tuborg (partner dell'evento), alla modica cifra di 64 corone danesi (circa 8 euro), scopro una cosa che in parte ci permetterà la sopravvivenza al Copenhell: la possibilità di riconsegnare i bicchieri vuoti in cambio di 5 corone l'uno, da sottrarre all'acquisto successivo. Inutile dire che pagare un gin lemon il corrispettivo di 2 euro invece dei quasi 14 previsti per l'occasione, e in generale a Copenaghen, ha fatto la differenza sul peso dei nostri portafogli. O meglio, sulle monete virtuali, visto che nell'area dell'evento era possibile pagare solamente cashless. Un tipo di approccio su cui a Christania qualcuno è particolarmente critico, adducendo l'arricchimento delle già potenti banche con eventuali costi di interesse (tra queste Unicredit). Lascio a voi giudicare, ma dall'altra parte i vantaggi in termini di velocità nei pagamenti sono stati davvero notevoli. Eccellente poi il cibo, con circa 40 street food di ottima qualità presenti ovunque. A causa del tempo gelido, reso tale da un vento insistente, abbiamo puntato su un chili e del buon vietnamita, tra Pho e Spring Rolls, piccoli ma sinceri.

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Ma questo solo dopo aver visitato un altro stage, il Pandemonium, quello più raccolto dedicato a sonorità più estreme. Ed è stato lì che alle 20:30 ci siamo posizionati tra le prime file per seguire i mitici Dying Fetus. Mi scuserete il tifo che mi sovviene dal cuore, avendoli scoperti a inizio anni 2000 con quel capolavoro di Destroy the opposition, ma chi c'era può essere d'accordo con me sulla grandezza dell'act in questione.

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Il trio è affiatatissimo e continua a macinare death metal di tendenza brutal con moltissimi accenni core. Il loro sound è infatti frammentato tra assalti all'arma bianca, riff molto tecnici ma anche diversi stop and go con approccio hardcore che invitano al mosh. Tra i brani eseguiti ci sono stati più pezzi dell'ultimo lavoro, a giudizio di chi vi scrive talmente perfetto da risultare un po' troppo inumano, di cui segnalo in particolare Compulsion for cruelty. Ma oltre agli ultimi vent'anni di discografia, con altri pezzi come l'ottima Homicidal retribution o Subjected to a beating (insieme a In the trenches estratta dall'ottimo Reign Supreme) più un paio di brani dal penultimo lavoro (tra i quali l'iniziale Wrong one to fuck with), non sono mancati capolavori degli anni '90 come l'eccezionale Grotesque impalement (posta al termine del set) e un estratto dall'ottimo Killing on Adrenaline, quell'Intentional manslaughter che mi ha "obbligato" a rimandare la via per l'urinatoio. Quello che non mi è piaciuto particolarmente è stata l'assoluta mancanza di pezzi del mio disco preferito e del successivo, e ottimo, Stop at nothing, nonostante la produzione di quest'ultimo potrebbe essere descritta con un parallelismo, divenendo l'...And justice for all della formazione americana.
Poco male, la terra sollevata durante il pit indiavolato, gli scapocciamenti continui e la partecipazione del trio, con un Gallagher lungocrinito, hanno dato il dovuto contesto ad una performance valida. Abbandoniamo l'area dopo cena per riprendere il bus 666 con una coda ben gestita dagli addetti, spesso riconoscibili per le pettorine gialle.

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Giovedì 20 giugno


Le stesse pettorine ci danno il benvenuto anche il giorno successivo, nel pomeriggio. Persi i Mr Bungle (d'altronde il ritmo vacanza deve comunque avere la meglio sulla mia fotta di partecipazione a qualsiasi concerto) ci presentiamo un po' in anticipo all'Hades, il palco a fianco del principale. Memori dei poghi del giorno prima con gli Offspring, e delle quintalate di polvere durante il set dei Dying Fetus, ci posizioniamo subito dietro la ringhiera creata per separare il pit e il resto dell'area in attesa dei Biohazard. Ciò non limita assolutamente la visuale né tantomeno la resa audio del gruppo, che conosco per Kill or be killed e Mata Leao nonché per le cover di una band di amici che suonava in una sala prove di Castel d'Azzano. "There are no black and no white, we are all shapes...of grey!". Così comincia l'omonimo brano dopo l'enunciazione di Evan Seinfeld, celebre sicuramente anche per la sua statura, per la sua carriera di pornoattore e ancora di più - e chi ha una quarantina d'anni o anche meno sa - per la moglie Tera Patrick. Ma oggi Seinfeld è qui per tutt'altri meriti, agli occhi dei tanti hardcore fan presenti ben più rilevanti degli altri appena citati. Al termine del set saranno ben cinque le canzoni estratte dall'esordio Urban Discipline del 1992. Ma non mancheranno pure rappresentanti di State of the World Address, ben tre, così come due tracce da Biohazard e una cover dei Bad Religion. Al di là delle questioni tecniche è però il feeling che si respira fra la formazione originale e il pubblico che convince appieno sullo show dei newyorkesi, cazzutissimo e pieno di energia, come quella sublimata quando fanno salire alcune persone del pubblico sul palco. Uno dei fan viene anche richiamato successivamente per mostrare come si muovono i fan dell'harcore, creando balli un po' sghembi in cui gambe e braccia sempre sembrano muoversi in autonomia.

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A Tom Morello, invece, spetta l'Helviti, il palco principale, attiguo all'Hades. E così stavolta decidiamo di viverlo dall'enorme collinetta situata al termine dell'altrettanto gigantesca striscia di asfalto dinanzi allo stage. Ed è stato un bel vivere, birretta in mano e orecchie e occhi puntati al set del chitarrista dei Rage Against the Machine. Perchè, sì, inutile girarci intorno: per quanto Morello si proponga in veste solista nell'immaginario collettivo rimane l'ascia di una delle band più "pericolose" dei '90's, autrice di 3 capolavori che, stupidamente, qualcuno considera troppo "simili" l'uno all'altro.

Ma di cosa state parlando?!
Morello ha dato nuovi stimoli al mondo della chitarra, e non certo per gli assoli al fulmicotone o per riff incredibili (presentissimi, peraltro) ma soprattutto per la modalità in cui li ha proposti, il "come". Così testimonia l'esecuzione di Killing in the name: è la capacità di utilizzare i suoni, con i relativi pedalini, il suo reale plus. E così non serve nemmeno il cantante in quella canzone, c'è già il folto pubblico a darle voce. Credo che in pochi possano permettersi una cosa simile, e Morello ha dimostrato che, almeno in questo caso, può. Poco prima, stavolta con il cantante, era toccato ad un classico degli Audioslave, quella Like a stone che, ascoltata mentre camminavamo verso la collina, mi ha fatto inevitabilmente pensare alla caratura del compianto Chris Cornell. Dopo addirittura arriva The ghost of Tom Joad, cover di Bruce Springsteen, ospite dello stesso Morello in una delle cover proposte su disco. Chiude il set, iniziato molto prima del nostro arrivo e contenente anche altri brani dei RATM nonchè cover di Mc5 e Maneskin (ovviamente Gossip), Power to the people, cover di John Lennon che manda - ed - è percepita - per il messaggio ben preciso che lancia e che ha sempre contraddistinto l'opera (profondamente politica) di Tom Morello.

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Ma veniamo ad uno dei momenti per me più attesi, ovvero il concerto dei Cradle of Filth sul Pandemonium stage. Che è stato, lo dico subito, molto più che godibile! Forse una notizia, specie per chi si rinchiude nella sicurezza di definire come "bollito" un gruppo perché magari in passato ci sono state performance non all'altezza.
Peccato che, oltre all'aspetto live che evidentemente negli ultimi anni ha ripreso ad essere ben percepito dai fan, i COF abbiano anche pubblicato il buono Existence is futile nel 2021. C'è poi da dire che oltre all'ultima fatica, omaggiata con Existential terror proprio all'inizio dell'esibizione, anche altri album meno conosciuti dai miei coetanei, evidentemente rimasti legati alle innegabili perle degli anni '90, sono stati rappresentati durante il set. Cito Trouble and their double lives con She is fire e Nymphetamine con l'omonima bella traccia.

Poi, saggiamente, i nostri, debitamente abbigliati e pitturati (con Dani Filth e il chitarrista Asho, da dieci anni nella band, sugli scudi), si concentrano sugli anni '90, a partire dalla quarta canzone, con la violenta The principle of evil made flesh, tratta dall'omonimo esordio. Una mazzata che ha fatto godere tutti, con un batterista, Marthus, in grado di rendere le dinamiche pur nelle ristrettezze di un tessuto ritmico sempre intenso. Diciotto anni di militanza evidentemente gli sono serviti, come comprovato nell'esecuzione della splendida Cruelty brought thee orchids e dell'evocativa Her ghost in the fog, tratte da due album che hanno fatto la storia del black metal sinfonico. Born in a burial gown, tratta da Bitter suites to succubi, suonata dopo Nymphetamine (Fix) da il là al finale di show, con l'esecuzione di due brani molto amati: Her ghost in the fog - tratta come Saffron's course da Midian - e From the cradle to enslave. I COF sono qui per restare.

Dopo tre concerti così intensi mangiamo qualcosa e acceleriamo il passo per vedere, ma con un certo relax di fondo, il set dei Limp Bizkit sul palco principale. La band di Fred Durst sa il fatto suo, come prevedibile, e tiene il palco con enorme disinvoltura.
Se non ci fossero migliaia di persone a seguire ogni mossa dei musicisti si potrebbe pensare che il gruppo si trovi in sala prove, talmente è marcata la sensazione di spontaneità. Ma, paradossalmente, questo avviene proprio perché lo show è preparato nei minimi particolari. E mentre dai megaschermi arriva il faccione imbiancato del leader, che a inizio 2000 - complice MTV - ha fatto molleggiare una generazione di amanti del nu-metal (o crossover, come preferite), i nostri padiglioni auricolari sono subissati da ben sette brani (!) di Chocolate starfish and the hot dog flavored water. I Limp Bizkit sono consci della grandezza (commerciale e culturale) di quell'album, e sparano tutti i singoloni: da quella Take a look around a My generation, My way e Rollin. Difficile non ancheggiare su quest'ultima, nonostante la birra in mano!

Ma durante il set non mancano altri brani meno blasonati da questo disco, come Boiler e Full Nelson. Se da Significant other sono tratti altri due pezzi di peso come Nookie e Break stuff il set degli americani stupisce più che altro per gli interludi, vissuti in modo molto chill tra un brano e l'altro. Mi riferisco alle registrazioni mandate per diversi secondi in filodiffusione e sottolineate da qualche effetto del dj come l'introduttiva Sweet home alabama, Proud Mary dei Creedence Clearwater Revival e Careless whisper di George Michael. Meno inattesa la cover, stavolta live a tutti gli effetti, di Behind blue eyes (contenuta nel loro disco Results may vary che risale addirittura al 2003). Lo stupore subentra semmai nuovamente con un pezzo da '90 in piena regola: Come as you are dei Nirvana. Risultato: ottimo live, che però in qualche modo testimonia la storicizzazione di un (sotto)genere e soprattutto quella di una band che - per via di risultati - è rimasta a circa 20 anni fa.

Venerdì 21 giugno


Ultimo giorno, per noi, ed è subito Kerry King. Sì, so benissimo che là fuori c'è chi crede che Kerry avrebbe fatto meglio a "tacere", evitandoci "brutte copie" di brani degli Slayer. D'altronde cosa si può pretendere da una band composta da due ex Slayer a tutti gli effetti come lui e Bostaph? Secondo me solo quello che ho sentito (anche) live, cioè una serie di riff thrash con sentori nu, ma quelli di degli ultimi album della band e non dei Limp Bizkit. E dal vivo tutto ciò funziona molto bene.

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In particolare quando vengono proposti alcuni dei pezzi più riusciti dell'esordio, su tutte From hell i rise (al termine), ma anche Toxic e Idle hands, evvia. Non manca un tributo alla "sua" band da parte dell'ipertatuato chitarrista americano. Dopo sei brani parte infatti Disciple, uno dei pezzi più belli degli Slayer del periodo God hates us all e post. Viste tutte le polemiche che si sono susseguite negli ultimi tempi non l'avrei assolutamente data per scontata. Così come la doppietta di poco dopo, che fa impazzire ancora di più un pogo già attivo: Raining Blood e Black Magic!
Protagoniste integranti dello show le fiammate on stage, davvero d'impatto, a rendere ulteriormente rovente una performance che, se non altro live, ha reso l'intensità di certi ultimi Slayer. E pace se Mike Osegueda a un timbro pulito ricordi Araya: a Kerry piace così.

Così, dopo questa bella botta, ci troviamo a sorseggiare un altro gin "fucking" tonic (si chiamava davvero così al festival) all'interno della Rip Area. E, poco dopo, nell'area attigua da cui è possibile osservare il Pandemonium, palco su cui si stanno esibendo i Madball. Non mi soffermerò granchè - li conosco poco e non ci siamo particolarmente concentrati sulla performance - ma sicuramente sono in gran forma, specie l'enorme cantante, che non si risparmia.

Ritmi hardcore, molto stretti. Quello che però ci ha colpito della visuale è ancora una volta la varietà di coloro che hanno partecipato al Copenhell 2024. Tantissimi gli stili differenti, con una predominanza di giubbetti pieni di patch. Tra le magliette non mancano Metallica, Slipknot, Machine Head ma pure altre più "ricercate", con band estreme o estremissime. Tante poi le shirts dei Red Varszawa, gruppo danese fondato nel 1986 ancora attivo con il proprio heavy metal.

Piano piano, ma neanche troppo, arriva il momento conclusivo: il concerto sul palco principale dei Machine Head. E allora via, nel pit, a vedere da sotto questa formazione che mi ha dato tanto con i capolavori Burn my eyes e The blackening. Se il resto della discografia mi è meno conosciuta poco male, ci pensano loro, appena salgono sul palco alle 21,30 perfette (gli orari da cartellone sono stati sempre rispettati al secondo) a rinfrescarla.

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La partenza di questo megashow, con un palco stellare anche sotto il profilo preparatorio e fuochi impressionanti, è affidata a quella Imperium che è coincisa con il momento di ritorno a sonorità meno nu-metal oriented. Subito dopo invece si torna in quelle sonorità, con la riuscita Ten ton hammer, che live acquisisce un peso specifico notevole. Complici anche i suoni, veramente assurdi per potenza e definizione, e l'ormai consolidata bravura dei musicisti coinvolti, tra i quali un Rob Flynn, ormai da tempo iconico nel suo modo di porsi (e spesso odiato proprio per questo). Di fatto è uno dei cardini del metal tutto, specie per chi ama le sonorità groovy alla Pantera. D'altronde anche Kerry King all'epoca di Burn my eyes rimase così colpito da invitarli come apertura agli Slayer per il tour successivo. I litigi successivi tra i due, con King infervorato per le sonorità nu-metal inserite nel sound dai Machine Head, per me è sinonimo anche di una onestà e di una passione che fanno bene a tutta la scena. Choke on the ashes of your hate inaugura un incredibile pogo che coinvolge centinaia di persone, ed è un tributo all'ultimo lavoro in studio - interlocutorio ma sicuramente meno odiato di Catharsis - e il momento in cui inizia a piovere, con sempre più virulenza. Questa condizione disagevole ci spinge a velocizzare il ritorno in ostello dopo l'esecuzione dell'ottima Locust, tratta dal buon Unto the locust del 2011, già prevista in anticipo per permetterci di preparare i bagagli in vista della levataccia del giorno dopo.

Lo facciamo sulle note di Is there anybody out there?, quasi un'interpretazione del mio pensiero nei confronti di una piattezza italica antitetica rispetto alla tre giorni che ho vissuto in questo splendido festival.

Nessuna recriminazione. Persino l'attesa sotto la pioggia per il ritorno con il mitico bus 666 e il mancato ascolto di Davidian (suonata come ultima traccia) va accettata nella consapevolezza di aver passato tanto tempo di qualità in questo eccezionale Copenhell 2024.

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Articolo a cura di Bomma

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