Manchester, Manchester Evening News Arena, 17 agosto “Backspacer”, nono disco in studio dei
Pearl Jam, uscirà il 18 settembre e la band di Seattle ha deciso di approfittarne per intraprendere un piccolo tour di una decina di date, di cui solo quattro nel nostro continente. Ovviamente l'Italia non è contemplata, e così non mi resta che far rotta verso l'Inghilterra per vedere una delle mie band preferite. Trasferta ancora più obbligata, quando si pensi che molto difficilmente potremo vedere Eddie Vedder e soci calcare i palchi europei il prossimo anno. E' dai tempi di “Vitalogy” infatti che il gruppo si esibisce regolarmente in America, toccando solo alternativamente il vecchio continente. Ce li siamo visti abbondantemente nel 2006 (difficile dimenticare i cinque concerti italiani, visto che ne è stato tratto anche un documentario) ma ho paura che a questo giro rimarremo fuori. E così eccomi diretto nella patria dello Union Jack, da sempre una sorta di seconda casa per loro, il paese ideale insomma per assistere a degli show veramente speciali.
Si parte da Manchester, una città che deve la sua fama per essere stata uno dei primi centri da cui è partita la rivoluzione industriale e per essere la casa di uno dei club calcistici più conosciuti del globo. A parte questo, nulla da segnalare. Città brutta e squallida fino all'inverosimile, tanto che la gita all'Old Trafford, il mitico stadio del Manchester United, si rivela essere l'unica cosa da fare per ammazzare il tempo prima del concerto.
La Manchester Evening News Arena, situata di fianco alla sede dell'omonimo quotidiano, è un auditorium capiente e sapientemente costruito e quando arrivo si respira già l'aria del grande evento. Qui i Pearl Jam hanno suonato una sola volta 17 anni fa, ma è interessante constatare come gran parte del pubblico provenga da ogni parte d'Europa e persino da Oltreoceano: tanti, ovviamente, gli italiani presenti, con tanto di bandiera nelle prime file.
Si parte in perfetto orario con l'esibizione dei Gomez, quintetto britannico con tre album all'attivo, fautore di un rock dal sapore alternativo che a tratti ricorda i Radiohead meno sperimentali. Band interessante e godibile, ma che non riesce a farmi sussultare eccessivamente.
Cambio palco un po' più lungo del previsto e poi, poco prima delle 21 (si inizia presto a suonare, in Gran Bretagna!) ecco i cinque presentarsi sulle note di un suggestivo intro pianistico, mai sentito prima d'ora. Si parte alla grande con “Long road”, pezzo scritto assieme a Neil Young e suonato, abbastanza saltuariamente a dir la verità, solo in veste di opener. Non dico che poteva già finire qui, ma poco ci manca. Di sicuro da sola è valsa il viaggio. In realtà è solo il preludio per due incendiarie versioni di “Last exit” e “Why go”, che mandano in visibilio il pubblico e scatenano la bolgia nelle prime file. Dopo un'inattesa “All night”, ecco arrivare il momento del primo estratto da “Backspacer”: si tratta di “The fixer”, il singolo, che è in circolazione già da diverse settimane. Un bel rock lineare e tirato, in pieno stile Pearl Jam, con una linea vocale coinvolgente ed immediata. Dal vivo funziona ancora meglio e i presenti mostrano già di apprezzare. E' in arrivo un futuro classico. La band, dal canto suo, è veramente in palla e suona potente e cattiva come non mai. Solo Eddie, per quanto sia come sempre ben dentro lo show, evidenzia una non eccelsa forma vocale, ma non è una cosa che riesca a penalizzare lo spettacolo.
La setlist è come al solito unica, disegnata esclusivamente per questa serata: stavolta vengono addirittura lasciati da parte pezzi noti e amatissimi dai fan come “Corduroy”, “Animal”, “Small town” e “Betterman”, a favore di chicche meno frequentemente eseguite come “In hiding”, “Low light” (emozionante!) e “Sleight of hand” (una perla da quel “Binaural” che purtroppo nell'ultimo tour è stato colpevolmente trascurato). Il suono non è purtroppo dei migliori e qua e là affiora qualche piccola sbavatura, soprattutto nell'esecuzione dei brani maggiormente atmosferici. Qualche mese di inattività possono creare un po' di ruggine, ma la spontaneità e l'intensità con cui la band snocciola un brano dietro l'altro è eccezionale, e d'altronde uno show dei Pearl Jam non ti dà mai l'aria di essere studiato a tavolino, quanto costruito e vissuto pezzo per pezzo, istante per istante, attraverso un continuo e intensissimo scambio di energia con i fan. Il tutto tenuto insieme dalla simpatia di Eddie Vedder, che stasera dialoga molto di più col pubblico, complice ovviamente la comunanza linguistica. E' uno show quasi interattivo, con la band che scopre la scaletta poco a poco, che la modifica spesso e volentieri in corsa, e che si prende anche il lusso di commettere grossolani errori, senza per questo perdere il controllo su quanto sta avvenendo (“Scusate, ma è solo il nostro quarto concerto”, ride Eddie Vedder dopo che avevano clamorosamente sbagliato l'attacco di “Got some”, un altro pezzo nuovo).
Due ore splendide, nelle quali viene snocciolato un po' di tutto, con una leggera preponderanza per il repertorio più datato, come del resto avvenuto anche nel precedente tour. Ecco così arrivare “Evenflow”, “Daughter” (stranamente in versione corta, e non dilatata con improvvisazioni varie), “Not for you”, “Reaviewmirror” (sempre spaventosa dal vivo!) e le immancabili “Alive” e “Black”, eseguite tra i bis. Di cose recenti stasera ne ascoltiamo un po' meno, e bene o male sono le solite: una potentissima “World wide suicide” (unico estratto da “Pearl Jam”), l'anthemica “Given to fly”, la tremenda scarica di rabbia di “Grievance” e ovviamente “Do the evolution”, un brano che ha sempre il potere di trascinare, non importa per quante volte l'hai già sentita.
C'è posto anche per la cover degli Who “The real me”, uno dei gruppi più omaggiati dai nostri, anche se questa l'hanno suonata pochissime volte; chiude il tutto una “Indifference” da brividi, decisamente meglio della solita “Yellow ledbetter” per concludere il set. Che dire? Gli anni passano ma loro sono sempre una delle migliori live band in circolazione, a dispetto delle mode e di tutte le polemiche della serie “era meglio quando facevano grunge”...
Setlist:
Long road
Last exit
Why go
All night
The fixer
Low light
In hiding
World wide suicide
Not for you
Evenflow
Present tense
Save you
Grievance
Sleight of hand
Got some
Given to fly
Reaviewmirror Encore 1:
Go
Daughter
Do the evolution
Alive Encore 2:
Smile
Black
Leash
The real me
Indifference Londra, O2 Arena, 18 agosto Il giorno dopo è un'altra storia. La O2 Arena (la stessa della reunion dei Led Zeppelin, quella in cui Michael Jackson avrebbe dovuto esibirsi per 50 volte, ecc.) è zeppa fino all'inverosimile, i biglietti sono stati polverizzati in cinque minuti e fuori ci sono un sacco di fan alla ricerca disperata di un prezioso tagliando. Londra è una piazza storica per i Pearl Jam, quasi quanto Seattle, la loro città natale. Basti pensare che solo due settimane prima si sono esibiti al celebre Sheperd's Bush, un club da 2000 persone, per una platea quasi esclusiva di iscritti al loro fan club. Oggi è tra le quattro sedi prescelte per questa rapida calata europea e l'atmosfera dell'evento non potrebbe essere più palpabile. Il colpo d'occhio all'entrata è favoloso: questo è un posto costruito apposta per la musica, ha fama di avere un'acustica eccezionale, e si capisce subito che assistere a un concerto qui non è proprio una cosa ordinaria.
I Gomez fanno il loro solito, onesto concerto, ma è abbastanza per capire che non sono il mio forte e che non andrò certo a recuperare i loro lavori in studio. I Pearl Jam arrivano qualche minuto prima questa sera e sono le note di “Release” a riempire l'arena: se volevano far venire la pelle d'oca a tutti, hanno scelto la strada più facile. Il seguito è la solita bordata di adrenalina che ti aspetti da loro dopo un'apertura così tranquilla: “Animal”, “Corduroy”, “Why go”, sparate in sequenza senza un attimo di respiro. Per una volta sono contento di non essere sotto il palco. Eddie saluta, beve dalla sua solita bottiglia di vino e ricorda il primo concerto che la band tenne a Londra nel 1992 (in realtà era il secondo), quando suonarono solo otto canzoni, assicura che questa sera i pezzi in scaletta saranno di più (“dieci o dodici”, dice tra le risate della gente) e si augura che le voci sull'ottima resa sonora di questo posto siano vere (“anche perché”- aggiunge – ieri abbiamo suonato in una venue che aveva un suono di merda”. Polemica orchestrata ad arte, si sa che non corre buon sangue tra Londra e Manchester).
Si prosegue con una bella versione di “Small town”, strasentita ma sempre dannatamente efficace, mentre uno dei momenti più emozionanti dello show, almeno per il sottoscritto, è rappresentato da “Immortality”, brano che sento dal vivo per la prima volta. Splendidamente cantata da un Eddie questa sera in forma smagliante, ha anche un'utile funzione di break, prima che con “The fixer” si ritorni a picchiare duro. Per quanto mi riguarda, ottengo la conferma definitiva: si tratta di un brano davvero valido, la garanzia migliore riguardo alla qualità dell'imminente “Backspacer”. “Evenflow” arriva carica come non mai, e dà la sensazione di una band molto più in palla della sera prima. A parte Stone Gossard, che sfoggiava un'inedita capigliatura lunga ma che per il resto è rimasto fedele al suo atteggiamento pacato, Mike Mc Cready e Jeff Ament sono apparsi assolutamente scatenati, col loro saltare in continuazione da una parte all'altra dello stage. Ecco arrivare “I got shit”, altro episodio proveniente dalla session di “Merkinball”, il lavoro realizzato assieme a Neil Young; a seguire, una cattivissima “Rats”, che fa salire pesantemente il numero dei brani tratti dai primi tre dischi: alla fine ne conteremo ben 14 su 28, esattamente metà setlist. Non che mi lamenti, dopo tutto amo alla follia tutto ciò che i Pearl Jam hanno scritto, eppure un po' dà fastidio sentire che i boati più grossi da parte del pubblico si verificano sempre e solo per le solite “Alive”, “Black”, “Betterman” e compagnia bella. Se questa è l'unica band uscita indenne dal calderone grunge ci sarà una ragione, e di sicuro essa non risiede nel numero di copie vendute da “Ten” e da “Versus”...
Ma sono polemiche inutili: stasera i cinque sono in forma strepitosa e fanno ben capire che hanno tutte le intenzioni di offrire uno show fenomenale: “Light years” e soprattutto “Insignificance” pagano pegno in maniera eccelsa a quello che è uno dei loro dischi migliori, “Binaural”, mentre le due bordate di “Life wasted” (un solo brano da “Pearl Jam” anche stasera, ma è chiaro che dopo averlo saccheggiato nel precedente tour abbiano voglia di metterlo in soffitta per un po') e “Blood” chiudono in bellezza la prima parte del set.
Un Eddie Vedder su di giri e ciarliero più che mai ringrazia per l'ennesima volta il pubblico, in particolare tutta la gente che è venuta da altre nazioni (e ce n'erano veramente tanti) e poi annuncia l'esecuzione di un pezzo mai suonato prima d'ora: si tratta di “Supersonic”, estratto dal nuovo album, alla sua prima esecuzione assoluta. Breve, veloce, dall'attitudine quasi punk e dal gran ritornello. L'attesa per “Backspacer” si fa sempre più spasmodica...
Il mio secondo highlight personale si chiama “Footsteps”: bside appartenente al periodo di “Ten”, è una chicca per intenditori raramente eseguita live, che viene qui resa in maniera superba. Inutile dire che anche questa valeva il viaggio. E' poi la volta della celebrazione di Boom Kaspar, il tastierista/organista che da ormai sette anni segue i Pearl Jam in tour, e che è diventato un po' il sesto membro del gruppo. “Love reign o'er me” è un bellissimo pezzo degli Who in cui il suo strumento è il protagonista assoluto e durante il quale Eddie si produce in una performance vocale tra le migliori che gli abbia mai sentito fare. Stasera non ce n'è per nessuno!
La prima tranche di bis è chiusa da “Alive” e da “Do the evolution”, ma la band rimane dietro le quinte solo per pochi secondi. L'arena è ormai una bolgia infernale, loro sentono l'atmosfera e avvertono che è una serata speciale: si ha come la netta sensazione che se potessero non scenderebbero più dal palco! Infatti si va avanti, e stasera durerà circa mezz'ora in più che a Manchester. Non me ne vogliano i fan storici, ma “Betterman” mi ha un po' rotto le scatole. Decisamente meglio “Crazy Mary”, la cover di Victoria Williams che ormai sembra quasi un pezzo loro e che offre come al solito una roboante jam finale con Mike e Boom grandi protagonisti. “Leaving here” è un'altra cover storica, di quelle che sanno rendere leggendario un concerto; e si riesce a fare meglio quando Eddie imbraccia la chitarra e al grido di “Nonostante la canzone si chiami Leaving here noi questa sera non ce ne andiamo” attacca, inconfondibile, il riff di “Porch”. E' un macello, con tutta la O2 in piedi a saltare e i sei a incendiare il palco come se si fosse ancora al secondo pezzo. Avrebbe potuto anche finire così e nessuno si sarebbe lamentato. Invece, giusto per fare le cose per bene, ecco arrivare anche “Yellow ledbetter”, che segna il fuggi fuggi di gran parte del pubblico, preoccupato di non rimanere imbottigliato nel traffico: manco fosse una partita di calcio...
Tirare le somme risulta a questo punto abbastanza superfluo: i Pearl Jam sono in splendida forma come sempre, “Backspacer” sarà un grande album, e il concerto di Londra è stata la migliore esibizione del quintetto di Seattle a cui abbia mai assistito. Chi non c'era non può che mangiarsi le mani, oppure pregare che cambino idea e decidano di venire a trovare anche noi...
Setlist:
Release
Animal
Corduroy
Why go
Small town
Immortality
The fixer
Evenflow
I got shit
Rats
Got some
Whipping
Light years
Insignificance
Black
Life wasted
Blood Encore 1:
Supersonic
Hai hail
Footsteps
Love reign o'er me
Do the evolution
Alive Encore 2:
Betterman
Crazy Mary
Leaving here
Porch
Yellow ledbetter