Chi mi conosce sa perfettamente il mio “odio” per i francesi, odio che mi ha tenuto lontano dalla loro terra per anni. Dopo quattro Wacken Open Air, un Metalcamp e infiniti Gods Of Metal, però, la voglia di cambiare ha preso il sopravvento, e mi ha spinto a mettere da parte i miei pregiudizi per i galletti, portandomi così, per la prima volta, all’Hellfest, festival che ormai da qualche anno si è guadagnato un posto di rilievo tra gli open air europei. Assoldato il fido Nico, quindi, si parte alla volta di Clisson. Dopo un viaggio allucinante (come sempre, quando si parte da Campobasso) finalmente arriviamo nella zona del festival, dopo aver recuperato un altro tassello importante di Metal.it, il buon Coroner. Beh, se devo essere sincero il primo impatto non è stato di certo dei più positivi. Accoglienza freddissima, come è nel loro stile, che fa di Clisson un paese quasi fantasma (chi è stato a Wacken sa, invece, quanto diversa sia l’atmosfera nel piccolo paesino), area campeggio piccola rispetto all’affluenza e completamente anarchica, tant’è che col passare del tempo c’erano tende montate in ogni dove, senza dimenticare il fatto che non era prevista illuminazione, quindi il rientro notturno era dettato molto al caso e alla fortuna. E poi da un festival giunto ormai alla sua sesta edizione, e per di più sold out ormai da mesi, non ti aspetti di certo un solo punto bar e un solo punto ristoro la sera prima delle aperture delle danze, soprattutto calcolando che l’area era già gremita di metallari puzzoni e mezzi ubriachi. Per non parlare poi dell’area docce/servizi igienici, assolutamente inadeguata, sempre rispetto all’affluenza, e che ha portato i presenti ad approfittare di ogni angolo per espletare i più disparati bisogni fisiologici… Fortunatamente il giorno dopo, all’apertura dei cancelli, le cose sono migliorate, anche se il festival verrà sicuramente ricordato per le code interminabili: per ogni cosa bisogna affrontarne una, il che in una situazione del genere può anche starci. Non ho capito però la scemenza dei gettoni da cambiare per avere la birra, visto che poi tutto il resto poteva tranquillamente essere pagato in euro. Ottima la zona stand, con un metal market veramente immenso dove si trova di tutto e di più, e una buona varietà di stand culinari. Dal punta di vista tecnico, inoltre, niente da eccepire, con orari rispettati al secondo, cambi palco precisi e veloci, audio più che buono su tutti e quattro i palchi (i due Main Stage, e i due minori, Rock Hard Tent e Terrorizer Tent), senza dimenticare un bill assolutamente eterogeneo che può accontentare tutti i palati. Il che, per chi come me ascolta tutti i generi, può diventare un problema, con pericolose sovrapposizioni che porteranno a scelte spesso complicate. E proprio per questo motivo, e per il fatto che ci sono 120 band in tre giorni (un bill, quest’anno, che ha sbaragliato in qualità la concorrenza europea, Wacken compreso), va da sé che nel report inevitabilmente qualche gruppo non sarà trattato e qualche setlist mancherà, ma non siamo robot… Per ovviare a qualche lacuna, io e il buon Cory abbiamo chiesto man forte al mio amico Nico, che ringraziamo per aver colmato quei vuoti di cui ho appena parlato. Insomma, per concludere, visto che ormai l’Hellfest ha risonanza internazionale, c’è ancora molto lavoro da fare se si vogliono raggiungere gli ottimi standard dei festival tedeschi, tanto per fare un esempio, invece di migliorare, di anno in anno, soltanto l’aspetto musicale. Ma ora bando alle ciance, e buttiamoci nell’analisi delle band che si sono alternate sui quattro palchi, lasciando subito la parola a Cory… (Roberto Alfieri)
SUICIDE SILENCEIl primo contatto con le band dell’Hellfest avviene con i Suicide Silence, che ebbi modo di recensire all’epoca del loro debutto discografico con “The Cleansing”: inutile sottolineare come il deathcore sia uno dei generi che maggiormente aborro, ma spinto dalla curiosità mi sono avvicinato al Main Stage 02 per vedere all’opera gli americani. La band certamente in sede live sa fare egregiamente il proprio lavoro, che in questa sede può anche vantare dei suoni potenti, puliti e ottimamente calibrati che in Italia sarebbero impensabili per un qualsiasi gruppo che si esibisce prima delle 18. Le vocals di Mitch Lucker alternano growl feroce e screaming acutissimi come nella miglior tradizione del genere, mentre i brani si destreggiano tra momenti brutali e stacchi groovy e possenti, che invitano all’hedbanging. Il buon numero di presenti che ha assistito alla loro esibizione testimonia che comunque la band può contare su un discreto seguito, soprattutto tra i metallari più giovani, mentre da un punto di vista puramente musicale la loro proposta si è rivelata piuttosto statica e alla lunga noiosa e sfiancante anche dal vivo. I fan dei Suicide Silence hanno comunque ottenuto dai propri beniamini quel che volevano. (Michele “Coroner” Segata)
SETLIST:
Wake Up
Unanswered
You Only Live Once
Smoke
Lifted
Fuck Everything
Disengage
No Pity For A Coward
MALEVOLENT CREATIONLe cose iniziano a farsi più serie quando sulla minore Rock Hard Tent salgono gli americani Malevolent Creation, delle vere leggende del death metal mondiale. La band di Phil Fasciana non pare essere scontenta della collocazione su uno dei due palchi più piccoli (l’altro è il Terrorizer Tent) e quando giunge l’ora di dare fuoco alle polveri i Malevolent Creation sciorinano una prestazione potente e adrenalinica, guidati da un Brett Hoffmann carichissimo, abile nel vomitare nel microfono il suo growl cavernoso e nel rivestire il ruolo di frontman. Il tempo a loro disposizione non è moltissimo, circa una quarantina di minuti in cui la band propone brani dall’ultimo “Invidious Dominion”, come “Slaughterhouse”, e alcuni classici come “Multiple Stab Wounds”, “Blood Brothers”, “Manic Demise” e “Infernal Desire”, oltre all'immancabile “Malevolent Creation”. Il pubblico è accorso numeroso riempiendo ben presto lo spazio della Rock Hard Tent ed acclamando a più riprese la band, autrice di una prestazione potente e precisa, come da piena tradizione death metal, anche se l’interazione con i presenti è stata praticamente assente. Ma se è il prezzo da pagare per assistere ad uno show come questo, ben lieto di pagarlo. Forse qualche estratto in più da “The Ten Commandments” non avrebbe guastato (una “Premature Burial” o “Remnants Of Withered Decay”, tanto per dire), ma a conti fatti non si poteva chiedere di più ai Malevolent Creation. (Michele “Coroner” Segata)
DODHEIMSGARDContinua il mio pellegrinare da una parte all’altra dell’arena, quindi dopo aver visto i Malevolent Creation ed aver pranzato allegramente con i Dwarves e il loro innocuo punkettino come sottofondo, decido di dare uno sguardo ai Dodheimsgard nel Rock Hard Tent. Giusto due parole riguardo al concerto dei norvegesi, autori di un black abbastanza canonico, e che resteranno nei ricordi dei presenti più per le trovate sceniche che per il reale valore del loro show. Al di là di qualche aficionados del black metal, infatti, non sono in molti a seguire la band e anche i riscontri sono abbastanza fievoli, nonostante il quartetto si dia da fare. Si sa, però, che a parte i grandissimi nomi, spesso il black non rende più di tanto dal vivo, quindi visto che sono coscio di non perdermi più di tanto, preferisco lasciare il tendone per affacciarmi al Terrorizer Tent e dare un’occhiata ai Church Of Misey, di cui, però, vi parlerà il buon Nico. (Roberto Alfieri)
CHURCH OF MISERYÈ primo pomeriggio quando sale sul palco del Terrorizer la band trita-ossa che corrisponde al nome di Church of Misery. Da bravi giapponesi i quattro riciclano alla perfezione suoni, stili, immagini e parole provenienti dai più fighi meandri della cultura occidentale. Doom metal molto rock and roll oriented, suonato e cantato con grinta e brutalità hardcore. Il cantante Yoshiaki Negishi è uno scalmanato: sale sulle casse, aizza la folla e vomita addosso ai presenti tutta la violenza e la follia omicida presente da sempre nel DNA della band! Magari sono stati leggermente penalizzati da un suono non proprio ottimale, ma il risultato finale è stato ugualmente devastante. Tra le altre cose, da segnalare un cambio di formazione: non c’è più Tom Sutton alla sei corde… così la line-up adesso è al 100% giapponese. (Nico Irace)
SETLIST:
I, motherfucker
Killfornia
Born to rase Hell
El padrino
KRISIUNDopo il doom n’ roll dei Church Of Misery, è l’ora di immergersi nel massacro perpetrato dai Krisiun, di nuovo nel Rock Hard Tent. Chi ha avuto modo di vedere almeno una volta i brasiliani all’opera sa di cosa sono capaci, e quest’oggi, qui a Clisson, non sono certo stati da meno. Un assalto sonoro senza pari si è abbattuto sui numerosi presenti che affollavano il tendone, e per l’ennesima volta ha colpito il fatto che a creare questa bolgia siano solo tre persone. Solo otto i brani suonati, ma più che sufficienti per provocare morti e feriti nel pit, con gente che volava da una parte all’altra del palco, e la security particolarmente impegnata a recuperare corpi volanti che atterravano al di là delle transenne. Con uno sguardo all’ultimo (per la verità abbastanza vecchiotto) “Southern storm”, con “Sentenced Mornign” e “Combustion Inferno”, e estratti più vecchi dal must “Conquerors of Armageddon” (“Hatred Inherit” e “Messiah’s Abomination”), i tre spazzano via tutto e tutti, con una prova magistrale che, se ancora ce ne fosse bisogno, ricorda a tutti i presenti chi siano gli attuali leader della scena death brasileira. Promossi a pieni voti… (Roberto Alfieri)
SETLIST:
Combustion Inferno
Vengeance’s Revelation
Messiah's Abomination
Hatred Inherit
(Unknown)
Bloodcraft
Sentenced Morning
Kings of killing
MAXIMUM THE HORMONEIn attesa di assistere allo show degli Eyehategod e dei Down, decido di seguire la band impegnata sul Main Stage 02, ovvero i giapponesi Maximum The Hormone, noti ai più (non io) per essere apparsi nella colonna sonora del celebre anime Death Note. I giapponesi, si sa, sono gente un po’ strana e la band non fa eccezione in questo senso, proponendo una musica decisamente composita ed aperta alle più ampie (e talvolta contrastanti influenze): le canzoni infatti mescolano metal, pop, rock e chi più ne ha più ne metta, ed il pubblico nonostante un comprensibile spiazzamento e titubanza iniziali, piano piano inizia a farsi coinvolgere dallo show di questi folli con gli occhi a mandorla. Instancabili sul palco (con un bassista che pare la copia orientale di Flea dei RHCP), i Maximum The Hormone hanno saputo divertire il pubblico e hanno dimostrato di poter essere apprezzati da quella fetta di pubblico mentalmente più aperta. Personalmente, la loro proposta musicale mi ha lasciato un po’ interdetto ma non si può negare che sulle assi del palco ci sappiano decisamente fare. (Michele “Coroner” Segata)
THE CULTDopo la furia omicida dei Krisiun e il simpatico siparietto dei Maximum The Hormone (non so perché, ma mentre li ascoltavamo ho detto al buon Cory di essere più che sicuro del fatto che sarebbero potuti piacere al gran capo Graz, visto l’alto contenuto pop dei loro brani :D ), è la volta di un po’ di sano e autentico rock, con i Cult impegnati a dare vita ad un più che positivo show sul Main Stage 01. Ammetto che i dubbi sul loro stato di salute erano forti, soprattutto riguardo la voce di Ian Astbury, però fortunatamente sono stati presto spazzati via da una performance grintosa e convincente. Certo gli anni passano per tutti, e la band non è più quella di quattro ragazzini che volevano conquistare il mondo. Di contro, però, l’esperienza accumulata negli anni si fa decisamente sentire, quindi non posso che ritenermi soddisfatto del concerto degli inglesi. Se poi si ha la sfacciataggine di iniziare lo show con un inno generazionale come “Rain”, il gioco è fatto, e si ha subito tutta la platea nelle mani, soprattutto se poi si prosegue saccheggiando quel caposaldo degli anni ’80 che risponde al nome di “Electric”, con diversi estratti tra cui “Lil’ devil”, “Electric ocean” o “Love removal machine”, che chiude lo show tra il tripudio della gente. Come dicevo l’età incombe, Billy Duffy è abbastanza statico, mentre Ian appare parecchio appesantito e non è più il frontman belloccio degli eighties, però, complici anche John Tempesta e Chris Wyse, che hanno portato nuova linfa alla sezione ritmica, lo show fila liscio, lasciando sicuramente il segno e andando a conquistarsi uno dei primi posti di questa prima parte di concerti del primo giorno di Hellfest. Peccato solo per l’assenza di qualche classico come “Fire woman” o “Revolution”, ma non si può avere tutto dalla vita… (Roberto Alfieri)
SETLIST:
Rain
Every Man and Woman Is a Star
Electric Ocean
Sweet Soul Sister
Horse Nation
Rise
Lil' Devil
Dirty Little Rockstar
Phoenix
Wild Flower
She Sells Sanctuary
Love Removal Machine
EYEHATEGODGiunge ora il turno di una delle band che aspettavo di vedere con maggior ansia in questo Hellfest, ovvero gli Eyehategod di Mike Williams e di Jimmy Bower (che poi ritroveremo in azione anche con i Down). A ospitare la band di New Orleans è la Terrorizer Tent che si riempie in tempo zero già qualche minuto prima che la band faccia il suo ingresso sul palco, costringendomi purtroppo a seguirla solamente da lontano. Se dal punto di vista visivo questo mi impedisce di avere una panoramica decente sugli Eyehategod, fortunatamente la resa audio permette di seguire tranquillamente il concerto anche se non si staziona sotto il palco. Il tempo a disposizione del gruppo è quello che è, e gli Eyehategod ne approfittano per proporre una selezione dei loro brani più famosi come “Blank”, “Sisterfucker”, “White Nigger” o “30$ Bag”: chi conosce il sound di questa incredibile band sa che gli Eyehategod propongono uno sludge/doom carico di nichilismo, disperazione, disagio, che nella dimensione live trova piena affermazione nella voce sgraziata e disperata di Mike Williams, ben accompagnata dalle chitarre paludose della coppia Bower-Patton. Gli Eyehategod propongono per l’occasione anche un pezzo inedito dal titolo “New Orleans Is The New Vietnam”, un brano che non si discosta dalla produzione tipica del gruppo e che a questo punto fa sperare in bene circa la realizzazione di un nuovo album in studio. Concerto non troppo lungo ma intensissimo per la band americana, che quindi vi caldeggiamo di non perdere nella loro unica data italiana a Milano ad inizio Luglio. Sicuramente una delle esibizioni migliori della giornata e al termine della kermesse anche di tutto l’Hellfest. Da notare la presenza di Phil Anselmo a lato palco per tutta la durata del concerto. (Michele “Coroner” Segata)
SETLIST:
Blank
Story of the Eye
White Nigger
New Orleans Is The New Vietnam
(New Song)
Sisterfucker (Part I)
30$ Bag
(Unknown)
THE EXPLOITEDEnnesimo velocissimo cambio palco (incredibile l’efficacia dei francesi da questo punto di vista, precisi come orologi svizzeri), ed ecco che dalle casse iniziano a fuoriuscire strani suoni. Chi ha visto la band almeno una volta in vita sua sa che provengono dalle microfonate che Wattie si tira sul cranio per testarne la funzionalità, il che significa che di lì a poco sotto il Main Stage 02 si scatenerà una bolgia di dimensioni ciclopiche, perché sta per iniziare lo show degli Exploited, uno degli ultimi baluardi del vero punk. Sì ok, c’è rimasto il solo Wattie della formazione storica a portare avanti la baracca, ma l’energia che la band sprigiona dal vivo è incredibile, così come ancora fottutamente credibile risulta essere il singer, col suo crestone a spike e le sue urla beduine. E da qui in poi sarà un susseguirsi di classici come “Let’s start a war”, che apre lo show, “Troops of Tomorrow”, “I believe in anarchy”, “Fuck the USA”, senza scordare il repertorio del secondo corso, quello con maggiori influenze thrash, ben rappresentato da brani quali “Noize annoys”, per esempio. E mentre nel pit si assiste ad una carneficina, con corpi dilaniati dalla violenza della band, Wattie continua a saltare da una parte all’altra del palco come una trottola, come se avesse ancora vent’anni e la rabbia di allora. Si va ancora a ritroso e quindi arrivano capisaldi del punk come “Punk’s not dead”, “Sex and violence” e “Army life”, che chiudono uno show adrenalinico che ha sicuramente lasciato il segno, sia fisico che psicologico, tra i presenti. Dal vivo gli Exploited sono sempre una garanzia, e quest’oggi l’hanno dimostrato di nuovo. (Roberto Alfieri)
SETLIST:
Let's Start a War (Said Maggie One Day)
Fightback
UK 82
Chaos Is My Life
Dead Cities
Alternative
Noize Annoys
Troops of Tomorrow
Never Sell Out
I Believe in Anarchy
Holiday in the Sun
Cop Cars
Beat the Bastards
Porno Slut
Fuck The USA
Punk's Not Dead
Sex and Violence
Was it me/Army Life
DOWNDopo la scorpacciata di sludge/doom nichilista degli Eyehategod, l’Hellfest offre un’altra band da novanta nell’ambito dei suoni più cupi e sabbathiani: stiamo ovviamente parlando dei Down guidati da Phil Anselmo, che negli ultimi anni ha saputo crearsi un grosso seguito per merito di tre album di ottimo livello e di prestazioni live adrenaliniche ed elettriche. Ecco quindi spiegato l’enorme affollamento sotto al Main Stage 01 in attesa che i Nostri salgano sul palco, ressa che, ahimè, mi costringe a seguire il concerto da lontano e sul maxischermo posto proprio in mezzo ai due palchi principali. L’inizio è da paura con “Lysergik Funeral Procession”, che subito mette in luce lo stato di forma della band, trascinata come di consueto da un Anselmo carismatico ed in grado di guidare la folla con enorme facilità, e sorretta dai riff fangosi che le chitarre di Pepper Keenan e Kirk Windstein imbastiscono con precisione. Anche il nuovo arrivato Patrick Bruders (già nei Crowbar e che va a rilevare in maniera permanente l’ex Panter Rex Brown, affetto da problemi di pancreatite) pare essere ben amalgamato nelle dinamiche di gruppo, anche se appare palese come tenda a restare un po’ in disparte e defilato rispetto agli altri quattro musicisti. Sulla scaletta nulla da ridire, i Down hanno puntato su una setlist studiata appositamente per i festival e per il poco tempo a disposizione, e pertanto via tutte le (stupende) canzoni lente e acustiche come “Jail” o “His Majesty The Desert” e spazio alle varie ed energiche “New Orleans Is A Dying Whore”, “Lifer”, “Temptation’s Wings”, “Stone The Crow” (con ritornello cantato all’unisono da tutti i presenti, sotto la direzione di un Anselmo che ho trovato un po’ più in carne rispetto al passato) o “Hail The Leaf”. Anslemo forse non sarà stato perfetto come su disco, ma sappiamo tutti benissimo che il suo valore aggiunto è la sua essenza da animale da palcoscenico e da gran trascinatore. Veramente divertente il siparietto in cui qualche fan “accalorata” ha lanciato il proprio reggiseno a Phil Anselmo il quale lo ha prontamente girato a Jimmy Bower dietro le pelli, che subito si è sfilato la maglietta e l’ha indossato scatenando l’ilarità generale. Spettacolare anche la conclusione sulle note di “Bury Me In Smoke” dove i Down hanno lasciato sul finale tutti gli strumenti ai ragazzi della propria crew (o almeno credo che fossero loro, non sono riuscito a veder meglio), che hanno potuto quindi godersi il loro momento di gloria davanti a migliaia di fan estasiati per il concerto. Pollice alto quindi per i Down, che ancora una volta hanno regalato uno spettacolo esaltante, carico, pieno di energia e groove, non risparmiandosi affatto per il proprio pubblico. Una garanzia in studio e sul versante live. (Michele “Coroner” Segata)
SETLIST:
Lysergik Funeral/Procession
The Path
Lifer
Losing All
New Orleans is a Dying Whore
Pillars Of Eternity
Ghosts Along the Mississippi
Temptation's Wings
Hail the Leaf
Eyes of the South
Stone the Crow
Bury Me in Smoke
VADERMentre sul Main Stage 01 si compiva il rituale dei Down, nel Rock Hard Tent si scatenava la furia dei Vader. La curiosità di vedere la band all’opera era parecchia, visto lo stravolgimento di line up che recentemente hanno subito i polacchi, guidati oggi dal solo Peter. Beh, devo ammettere che il singer ha fatto bene le sue scelte, prendendo tre compagni di viaggio che sicuramente non faranno rimpiangere più di tanto i vecchi membri, viste le capacità di esecuzione di tutti e tre. Questo, unito ad un sound ancora una volta ottimale, pur non trovandoci sui due palchi principali, hanno reso lo show un vero assalto all’arma bianca, con i polacchi impegnati a convincere la platea della bontà della loro proposta e del fatto di non aver perso un’oncia della loro rinomata violenza, nonostante il cambio di formazione di cui parlavamo prima. Purtroppo la sovrapposizione con lo show dei Down mi porta via dal Rock Hard Tent dopo una ventina di minuti per poter assistere almeno ad una parte del concerto della band di Phil Anselmo. Venti minuti, però, che sono bastati per constatare l’ottimo stato di salute dei Vader, di cui avrò modo di parlare in maniera più approfondita nel live report dell’Armageddon in The Park, che si terrà a fine Luglio. (Roberto Alfieri)
IGGY AND THE STOOGESCon il doppio show Down/Vader la giornata sta proseguendo davvero bene, ma inevitabilmente sopraggiunge un minimo di stanchezza, e soprattutto una fame della madonna. Non me ne vogliano, quindi, i fans dei Meshuggah, ma ho preferito ascoltare il loro show (peraltro come sempre impeccabile dal punto di vista esecutivo, un po’ meno, forse per quanto riguarda il coinvolgimento, ma si sa il tipo di proposta degli svedesi, quindi non è certo una novità), in disparte, mentre mi nutrivo, anche per preservare le forze in vista del primo piatto forte della giornata, lo show di Iggy and The Stooges. Avevo già avuto modo di vedere all’opera il biondo singer nel 1996, ed ero rimasto stupito da quanta energia riuscisse a sprigionare su un palco. L’idea che, quindici anni dopo, l’età iniziasse a farsi sentire era quindi legittima, per questo sono rimasto basito nel trovarlo ancora in una forma strepitosa, come se il tempo si fosse miracolosamente fermato per lui. E la cosa più sconvolgente è stata trovare anche i suoi compagni di avventura vitali e pimpanti, cinque arzilli vecchietti che hanno ancora una voglia immensa di suonare, divertirsi e far divertire. Una rivelazione, solo così posso descrivere lo show degli americani, perché se non avevo dubbi riguardo la bontà dei brani proposti (“Raw power”, “Gimme danger”, “Search and destroy”, “No fun”, “I wanna be your dog”, e chi più ne ha più ne metta), qualche giusto interrogativo poteva esserci sulla performance in sé per sé. Beh, tutto spazzato via fin dalle prime note di “Raw power”, che dimostrano ancora una volta l’importanza che la band ha avuto per la nascita e lo sviluppo del movimento punk, molti anni prima che questo muovesse i suoi primi passi. L’attitudine di Iggy è sempre strafottente, provocante, e le sue movenze restano da vera rock star, di quelle di una volta, capaci di catalizzare l’attenzione e tenere in pugno migliaia di persone come niente fosse. Vi dico solo che nelle mie intenzioni c’era di fare una scappata ai palchi piccoli per dare un’occhiata a Belphegor e Corrosion Of Conformity, ma lo show degli americani era talmente coinvolgente che non ce l’ho fatta proprio a spostarmi… Niente altro da aggiungere quindi, quello degli Stooges è sicuramente uno dei migliori, se non il migliore in assoluto, concerto di questa prima giornata di festival, a dimostrazione, ancora una volta e se mai ce ne fosse bisogno, che i vecchi leoni sanno ancora come imporsi sulle nuove leve… (Roberto Alfieri)
SETLIST:
Raw Power
Search and destroy
Gimme Danger
Shake Appeal
1970
Fun House
Open Up And Bleed
L.A Blues
Beyond the Law
Penetration
I Got a Right
I Wanna Be Your Dog
No Fun
MORBID ANGELLa sera inizia a calare su Clisson e sull’Hellfest, che entra quindi nel vivo del primo giorno con i primi headliner: la giornata alle spalle è stata dura e ricca di concerti di qualità, le gambe iniziano a cedere sotto i primi colpi della stanchezza ma è ora di godersi lo spettacolo dei Morbid Angel! Certo il nuovo “Illud Divinum Insanus” fa ancora discutere e personalmente lo ritengo l’album peggiore della loro discografia (ed in generale un disco ignobile per idee e relativa realizzazione), per questo la speranza è quella che David Vincent e soci limitino al minimo sindacale gli inevitabili estratti dal nuovo lavoro. Discreta curiosità anche di vedere in azione il giovane Tim Yeung, talentuoso batterista che al momento come saprete ricopre la posizione dello storico e acciaccato Pete “Commando” Sandoval. Il concerto inizia nel migliore dei modi, proponendo un trittico di apertura devastante con “Immortal Rites”-”Maze Of Torment”-”Angel Of Disease” che scatena il putiferio nelle prime file, dove peraltro stazione il Vostro Affezionatissimo, e che mette in luce ancora una volta la potenza, la limpidezza e la perfetta calibratura dei suoni dell’Hellfest (di cui per dovere di cronaca ogni gruppo del festival ha potuto godere): lo stato di forma del gruppo è eccezionale, soprattutto per quel che riguarda la voce di David Vincent che tra un brano e l’altro si rivolge al pubblico (anche se non tantissimo) con quel suo tono baritonale e greve. Strumentalmente parlando ero sicuro che dei professionisti come i Morbid Angel non avrebbero deluso, ed infatti i brani sono stati eseguito con molta cattiveria e senza sbavature. Promosso anche il nuovo drummer, decisamente potente, tecnico e con un certo gusto per le giocolerie, tra bacchette fatte roteare e quant’altro. Dopo le tre splendide canzoni di apertura, arriva il momento dolente, ovvero i temuti estratti da “Illud Divinum Insanus”: com’era prevedibile i Morbid Angel hanno puntato sui pezzi più death metal oriented come “Existo Vulgoré”, “Nevermore” e “I Am Morbid” che dal vivo sicuramente sono risultate più sopportabili che su disco. Durante i tre pezzi però la partecipazione e l’apprezzamento del pubblico ha raggiunto i minimi storici, tra cui gente che dalle prime file ha mostrato il pollice verso al gruppo, creando un po’ di malumore soprattutto a Trey Azgatoth che è apparso un po’ stizzito. Basta che Vincent nomini il titolo “Chapel Of Ghouls” che d’improvviso il pubblico pare rianimarsi e torna a godersi il concerto, sulle note di uno dei cavalli di battaglia dell’Angelo Morboso. Un veloce cambio di chitarre preannuncia l’esecuzione di brani estratti da “Domination”, ed infatti ecco che i Morbid Angel si congedano dall’Hellfest con una triade finale composta da “Where The Slime Lives”-”God Of Emptiness”-”World Of Shit” accolte con rinnovato entusiasmo da parte del pubblico. In generale il concerto è stato soddisfacente, ma la sciagurata scelta di inserire in setlist ben tre pezzi da “Illud Divinum Insanus” per forza di cose ha fatto calare l’entusiasmo del pubblico. Sarebbe stato forse più saggio ed indolore diluire i tre brani all’interno della scaletta anziché eseguirli tutti in sequenza. In ogni caso i Morbid Angel si confermano devastanti dal vivo, dove l’energia dei brani storici è ancora enorme. (Michele “Coroner” Segata)
SETLIST:
Immortal Rites
Fall From Grace
Rapture
Maze of Torment
Existo Vulgoré
Nevermore
I Am Morbid
Angel of Disease
Chapel of Ghouls
Where the Slime Live
God of Emptiness
World Of Shit (The Promised Land)
POSSESSEDCommovente. Non riesco a trovare un altro aggettivo per descrivere lo show di Jeff Becerra e dei suoi Possessed. Certo, è molto difficile riuscire a chiamarli ancora così, visto che della formazione originale c’è rimasto il solo singer e tutti gli altri provengono da varie band del panorama estremo americano. Ciononostante, i brani eseguiti sono talmente mitici e la voce di Jeff ha una timbrica talmente particolare che è impossibile rimanere impassibili una volta che i nostri iniziano a darci dentro. E che dire della grinta del leader, che scapoccia come un pazzo e si muove da una parte all’altra del palco nonostante ormai da anni sia bloccato su quella maledetta sedia a rotelle? Se non è tenacia questa… Se poi aggiungiamo brani ormai entrati di diritto nel gotha del metal estremo di tutti i tempi come “The exorcist”, “Burning in Hell”, “Confessions”, “Pentagram” e l’immancabile “Death metal”, capirete come la strada per il gruppo californiano sia tutta in discesa, e il pienone nel tendone lo dimostra ampiamente. A rovinare leggermente la festa qualche problema tecnico di troppo (a dire il vero quasi gli unici riscontrati durante tutti i tre giorni di festival), che prima ha lasciato senza volume il buon Jeff per quasi tutto il primo brano, e poi uno dei due chitarristi verso la metà del concerto. Tutto sommato niente che abbia potuto inficiare la riuscita di uno show genuino ed adrenalinico, che mi ha tenuto inchiodato nel Rock Hard Tent fino al suo termine, nonostante sul Main Stage 01 si stesse esibendo Rob Zombie. A dire il vero le mie intenzioni erano quelle di vedere almeno la parte finale del suo show, ma evidentemente qualcosa non è andata come doveva, visto che il tutto è terminato circa un quarto d’ora prima dell’orario previsto, lasciandomi così a bocca asciutta, con il risultato che ho potuto ascoltare soltanto la fine di “Dragula”, che ha, appunto, messo il sigillo allo show del singer americano. Poco male, sono inconvenienti che capitano in un festival, e soprattutto non ho affatto rimorsi visto l’ottimo show dei Possessed a cui ho assistito. (Roberto Alfieri)
MELVINSQuando sul palco ci sono King Buzzo e soci devi aspettarti veramente di tutto. Ci si ritrova in un mondo di follia imperante in cui le più estreme sperimentazioni si mescolano a elementi più classici in un devastante cocktail che inizi a bere a piccole sorsate e poi scopri di volerne sempre di più. La gente resta ammirata a seguire le folli fughe della band di Seattle. A bordo palco si può anche scorgere un esaltato Phil Anselmo ad ascoltare il concerto insieme ad altri membri di Down e Eyehategod. Tra le varie canzoni eseguite che non sono riuscito a riconoscere (la discografia dei Melvins è immensa), c’è spazio anche per qualche classico come “Queen”, “Hooch” e “Night Goat” e due cover di Alice Cooper: “Second Coming” e “Ballad of Dwight Fry”. Un incredibile viaggio in una realtà bizzarramente distorta: i Melvins sono un’esperienza che prima o poi tutti devono fare! (Nico Irace)
SETLIST:
Hung Bunny
Roman Bird Dog
The Water Glass
Evil New War God
It’s Showed
Anaconda
Queen
Second Coming (Alice Cooper cover)
Ballad of Dwight Fry (Alice Cooper cover)
Sacrifice (Flipper cover)
Hooch
Honey Bucket
With Teeth
Sweet Willy Rollbar
Revolve
Night Goat
MONSTER MAGNETA conti fatti sono passati più di dieci anni da quando i Monster Magnet sfornavano solo capolavori. Questo arco di tempo è stato riempito dai guai di un Dave Wyndorf in continua lotta con demoni da cui è difficile liberarsi e da un alternarsi di dischi più carini ad altri mediocri, nessuno però all’altezza dei fasti dei 90’s. Tuttavia dal vivo i Monster Magnet continuano ad essere una sicurezza e a dare una pista al 99% delle band uscite dopo di loro. Dalla loro parte hanno una serie di classici e un’energia rock and roll che in pochi riescono ancora a sprigionare, questo basta per far si che il loro sia uno dei concerti più intensi di tutto il festival. Un viaggio tra sensuali e lisergiche visioni spaziali che ha come colonna sonora molti dei pezzi più belli dei loro primi quattro dischi. “N.O.D”, “Dope to Infinity”, “Space Lord”, valgono da sole quanto migliaia di altri concerti stoner ed è davvero impossibile trattenersi dal cantare a squarciagola il ritornello di “Powertrip”, un inno generazionale. Note che ti toccano il cuore e ti portano a desiderare che il concerto non finisca mai. Semplicemente immensi! Space Lord Motherfucker! (Nico Irace)
SETLIST:
Nod Scene
Tractor
Dopes To Infinity
Hallucination Bomb
Dig That Hole
Medicine
Look to Your Orb for the Warning
Crop Circle
Powertrip
Space Lord
Foto a cura di Roberto Alfieri