(18 giugno 2011) Hellfest 2011 - Day 2

Info

Provincia:CL
Costo:130 euro
CRUCIFIED BARBARA
Nonostante la prima giornata di festival sia stata abbastanza pesante, visto anche il brutto tempo che ha infastidito non poco, con pioggia e soprattutto un vento gelido, la seconda giornata inizia di buon’ora, e alle 11 sono già sotto il Main Stage 01 per guardare lo show delle quattro patanone Crucified Barbara. Era da tempo che volevo assistere ad un loro show, per verificare se la grinta che sprigionano in studio fosse mantenuta anche in sede live, e devo dire che non solo è confermata, ma ovviamente ampliata, con le nostre quattro fanciulle che per una mezz’oretta ci fanno divertire con il loro rock scanzonato. Trainate da Mia Coldheart, supportata alla grande da Klara Force e Ida Evileye, la nostre pescano dal loro (piccolo) repertorio, ma non mancano di presentare anche un paio di brani inediti che fanno ben sperare riguardo lo stile e l’andamento del nuovo album. La dimostrazione vivente del fatto di non trovarci soltanto davanti a quattro belle ragazze, ma anche davanti a quattro ottime musiciste, preparate, grintose e con due attributi così sotto… Direi che per iniziare bene la giornata non potevamo chiedere di meglio… (Roberto Alfieri)

WHIPLASH
Quando ho visto il running order del festival mi stava venendo un infarto. Quella di oggi è la mecca per tutti i thrashers che si rispettino, e ad aprire le danze ci pensa la band di Tony Portaro. A dispetto di un ultimo album che non ha fatto gridare al miracolo, dal vivo il trio del New Jersey è una garanzia, pesta duro che è una bellezza e non lascia feriti. La setlist è ovviamente incentrata quasi per intero sul primo, mitico, album della band, ed ecco quindi arrivare, in ordine sparso, capolavori del thrash come “Power thrashing death”, “Stage dive”, “Spit on your grave”, e via dicendo. Portaro è in gran forma, e se i capelli ormai non l’accompagnano più, nulla da dire riguardo la sua performance, sia vocale che sullo strumento. E buon supporto gli danno anche i nuovi Rich Day al basso e Dave Foord dietro le pelli. Da sempre un po’ sottovalutati, hanno dimostrato anche quest’oggi, come già fecero due anni fa sul palco del Wacken Open Air, di avere grinta da vendere on stage, e di non avere nulla da invidiare a tante altre, e più blasonate, band thrash metal, anche di qualcuna presente in cartellone quest’oggi. Il primo piatto è servito, andiamo avanti… (Roberto Alfieri)



ANGEL WITCH
A questo punto, concedetemelo, scappa la lacrimuccia… l’emozione di assistere, finalmente, allo show di una delle mie band preferite da sempre, lo ammetto, è forte. E quando il quartetto fa il suo ingresso sul palco sulle note di “Gorgon”, mando a quel paese i miei 36 anni e inizio a saltellare come uno stupido sedicenne… potenza del metal… E che dire quando vedo, sulla sinistra del palco, Bill Steer alla seconda chitarra? Sapevo del suo ingresso nella band, ma mi ero letteralmente dimenticato di questa cosa, quindi è stata una graditissima sorpresa vedere l’ascia dei Carcass sul palco insieme a Kevin, ricoprendo un ruolo, peraltro, che sembra essergli stato cucito addosso. Non è questa la sede adatta per parlare della carriera altalenante della band, o dei suoi infiniti cambi di line up. Ora voglio solo godermi i loro classici, e così sarà, visto che sarà riproposto quasi per intero tutto il primo album, con l’aggiunta dell’immancabile “Baphomet”. Heybourne non è mai stato un grandissimo cantante, però quest’oggi si difende più che bene, sopperendo con l’esperienza lì dove poteva avere qualche problema di estensione. Ma poi sti cazzi, il suo timbro è talmente particolare che gli si può perdonare qualche stecca qua e là. Con lo scorrere dei brani mi accorgo di come il biondo chitarrista tenga tutta per se la scena, non lasciando neanche un assolo, se non quelli armonizzati, al povero Bill, che dal canto suo sembra fregarsene allegramente e divertirsi come un ossesso. “Confused”, “White witch”, “Atlantis”, “Angel of death”, è un susseguirsi di classici, fino all’immancabile “Angel witch”, che pone il sigillo ad uno show onesto e sentito, da parte di una band che non ha mai raccolto quanto in realtà meritava. Questa mattina, per fortuna, le cose sono andate diversamente, con una notevole quantità di persone assiepate sotto il Main Stage 01 a tributare quanto dovuto ad un piccolo pezzo di storia del metal… (Roberto Alfieri)



SETLIST:
Gorgon
Confused
Sorceress
White Witch
Atlantis
Angel Of Death
Baphomet
Angel Witch

MEKONG DELTA
Altra piccola grande chicca qui all’Hellfest, ed ecco che a salire sul palco sono i Mekong Delta. La curiosità di vedere se anche dal vivo le intricate architetture dei loro brani potevano essere riprodotte fedelmente era tanta, e devo dire che la band non ha deluso le aspettative, dimostrandosi incredibilmente tecnica ed affiatata. Il singer Martin LeMar fa il suo ingresso sul palco completamente incappucciato, e attacca un brano a cappella, seguito, subito dopo, dai suoi compagni d’avventura. Fin dalle prima note si capisce che la band è in formissima, con Ralph Hubert nel ruolo di novello direttore d’orchestra, a dettare le trame col suo basso con una semplicità quasi disarmante. C’è da dire, per dovere di cronaca, che la band ha optato per i suoi brani più melodici, e quindi meno intricati, anche se non sono mancati due o tre episodi dei loro, che hanno lasciato i presenti a bocca aperta… Probabilmente un grande palco in piena mattina non rende pienamente giustizia alla proposta dei nostri, più intima e quindi più adatta ad altre situazioni, ma Hubert e soci non si lasciano certo intimidire e riescono a convincere i presenti grazie ad una performance veramente sopraffina, che lancia la sfida, a distanza, ai Coroner, che risponderanno però soltanto a tarda notte. Nella giornata dedicata al thrash più grezzo e diretto, sono riusciti a ritagliarsi il loro spazio, dimostrando di essere una delle band più originali ed innovative di sempre… (Roberto Alfieri)

HAMMERFALL
Per una serie di circostanze non mi imbattevo negli Hammerfall ormai da anni… Premesso che a parte i primi due album ritengo il resto della loro discografia assolutamente inutile, ho sempre ritenuto, però, la band svedese, un simpatico diversivo dal vivo, una band capace di intrattenerti per un’oretta in simpatia ed allegria, quindi mi sono avvicinato al Main Stage 01 pensando di assistere al loro solito show carico di energia. Beh, che dire? È successo tutto l’opposto di quanto mi aspettavo. Rispetto all’ultima volta che li avevo visti live, gli Hammerfall mi sono sembrati ormai giunti pericolosamente alla frutta, con una performance sbiadita e scialba, lontana anni luce da quelle infuocate della fine degli anni ‘90. Se poi aggiungiamo una scaletta tristemente povera di classici, la debacle è servita… Non sono bastate, infatti, “Hammerfall” o “Let the hammer fall” (che fantasia) e risollevare le sorti di uno show fiacco, con Cans stranamente apposto con la voce, ma che è apparso stanco e svogliato, e Dronjak fin troppo occupato a fare il “fotomodello” (non si può vedere con quei capelli biondi…). Insomma, una delusione totale sotto tutti i punti di vista. Non posso far altro che sperare si sia trattato di una giornata no, ma ho forti dubbi a riguardo. Mi sa che devo, purtroppo, prendere atto della fine, anche in sede live, visto che in studio ormai l’avevo fatto da tempo, e l’ultimo “Infected” non è che l’ennesima conferma, di un’altra band simbolo dell’ondata power metal di una quindicina di anni fa. Croce sopra… (Roberto Alfieri)



SETLIST:
Patient Zero
Renegade
B.Y.H.
Last Man Standing
Blood Bound
HammerFall
One More Time
Hearts on Fire
Let the Hammer Fall

HAIL OF BULLETS
In una giornata che pare consacrata al thrash metal, la Rock Hard Tent ospita una delle band death metal che più si sono imposte negli ultimi anni: ci riferiamo ovviamente agli Hail Of Bullets di Martin Van Drunen, una delle icone del death metal di stampo europeo. La band è confinata sotto la Rock Hard Tent ed ha solamente tre quarti d’ora per mettere a ferro e fuoco l’Hellfest con il suo death metal a sfondo bellico: dopo l’epica intro “The Eve Of The Battle”, l’offensiva ha inizio con la terremotante “Operation Z”, un brano che sin da subito mette in chiaro che gli Hail Of Bullets non hanno nessuna intenzione di fare prigionieri quest’oggi. Batteria devastante, chitarre potenti che alternano momenti serrati ad altri più cadenzati, in grado di riportare alla mente formazioni come Bolt Thrower e Asphyx. Su tutto questo domina la voce di Martin Van Drunen, una voce inconfondibile con quel suo tono strozzato che gli amanti del death conoscono molto bene. L’avanzata della corazzata continua imperterrita con “Red Wolves Of Stalin”, che con il suo incedere marziale fa cadere molte teste a suon di headbanging, mentre la possente e cadenzata “Full Scale War” dà un po’ di tregua prima che il panzer guidato da Van Drunen riprenda la sua inarrestabile offensiva con “General Winter”, un brano dalle fortissime tinte Asphyx. Nel poco tempo a disposizione, il gruppo ha proposto estratti da entrambi i dischi in studio, fornendo una scaletta di assoluto livello e ottimamente calibrata. Nonostante l’orario non proprio ottimale ed una location di nicchia rispetto ai due palchi principali, gli Hail Of Bullets hanno offerto uno spettacolo assolutamente devastante e convincente, basato sostanzialmente su poca forma e tanta sostanza. In altre parole, un concerto death metal. Il pubblico ha dato il suo supporto al gruppo, sottolineando l’alta qualità espressa dal vivo dal gruppo, che saluta l’Hellfest sparando l’ultima cartuccia “Ordered Eastward”, in grado ancora una volta di scatenare un headbanging selvaggio ed inarrestabile. Restiamo in attesa trepidante del terzo capitolo discografico di questa grande band. (Michele “Coroner” Segata)

SETLIST:
The Eve of Battle
Operation Z
Red Wolves of Stalin
Full Scale War
General Winter
Berlin
Kamikaze
Tokyo Napalm Holocaust
Ordered Eastward

RAW POWER
Queste sono decisamente soddisfazioni… Quando arrivo sotto il Terrorizer Tent è poca la gente sotto al palco. Evidentemente la spocchiosità francese li aveva portati, inizialmente, a snobbare l’unico rappresentante italico del festival. Fregandosene altamente, la band di Mauro Codeluppi attacca il suo massacro hardcore, e nel giro di un paio di minuti il tendone si riempie all’improvviso, evidentemente grazie alla grinta e alla violenza dei nostri, che fanno volare corpi a destra e sinistra. Niente fronzoli, niente proclami, soltanto musica sparata in your face, senza respiro, brani corti e diretti che non lasciano modo alla platea di riflettere su cosa stia accadendo. D’altra parte stiamo pur sempre parlando di una delle band cardine dell’hardcore mondiale, con trent’anni di esperienza sui palchi di tutto il mondo, e se si hanno nell’arco frecce a nome “My boss”, “You are the victim”, “”Fuck autority”, “Hate” o la mitica “State oppression”, il gioco è fatto… Mauro è decisamente in forma questa mattina, e salta sul palco come un ossesso, mentre i suoi compagni di merenda sono visibilmente galvanizzati dalla reazione del pubblico, e si sbattono come dannati. Pubblico che, da parte sua, dopo l’iniziale accoglienza gelida di cui accennavo, ha restituito alla band il giusto calore, massacrandosi nelle prime file. Una mezz’ora abbondante quella a disposizione del gruppo emiliano, più che sufficiente per lasciare un segno tangibile ed indelebile in questa seconda giornata di festival… (Roberto Alfieri)

UFO
Dopo tutta la violenza dei Raw Power, è il caso di calmarsi un attimo, quindi mi dirigo sotto al Main Stage 01 per assistere allo show degli Ufo. Ho già avuto modo di vedere la band in azione altre volte, e so che da loro puoi sempre aspettarti il meglio, con performance di classe e di mestiere, come solo i grandi vecchietti del rock sanno fare. Quest’oggi, però, le cose sembrano andare in maniera leggermente differente. L’inizio dello show non sembra dei migliori, sembra quasi che la band stenti a decollare. Fortunatamente il tutto viene risolto subito, e già con la successiva “Only you can rock me” ecco tornare i soliti leoni di sempre. Soltanto otto i brani a loro disposizione, e forse è un bene, perché probabilmente con un set più lungo, i rischi che qualcosa potesse tornare ad andare storto sarebbero aumentati. In ogni caso, un Vinnie Moore impeccabile porta avanti la baracca con grande maestria insieme al fido Paul Raymond, lasciando al vecchietto Phil Mogg il solo ruolo di cantare e intrattenere il pubblico, cosa che peraltro gli riesce ancora alla grande. Inutile sottolineare come l’apice dello show degli inglesi si sia avuto con la doppietta finale, quelle “Rock bottom”/ “Doctor doctor” entrate ormai di diritto nella storia della musica rock, ed eseguite, finalmente, con la giusta grinta dalla band. Di certo quello di oggi non è stato lo show migliore degli Ufo a cui abbia assistito, ma si sa, una giornata no può capitare a chiunque, anche ai grandi. C’è da dire, però, che la band si è comunque difesa con unghia e denti, dimostrando ancora una volta carattere e tenacia, nonostante l’età… (Roberto Alfieri)



SETLIST:
Love To Love
Only You Can Rock Me
Venus
Too Hot To Handle
Lights Out
The Gypsy
Rock Bottom
Doctor Doctor

MUNICIPAL WASTE
Le numerose t-shirt indossate dai molti fan sono un fenomeno indicativo di quanto successo abbiano riscosso negli ultimi anni gli americani Municipal Waste, autori di un thrash metal dalle forti tinte hardcore e che si sono imposti con il loro stile cazzone e scanzonato (piccola nota: i metallari, soprattutto italiani, dovrebbero assorbire un po’ di questo spirito leggero... fa bene alla salute). A ulteriore testimonianza di quanto fosse attesa l’esibizione del gruppo guidato da Tony Foresta c’è da segnalare che il Main Stage 02 e le prime file erano gremite ben prima dell’ingresso della band sul palco. L’attesa termina ben presto ed i Municipal Waste attaccano il loro concerto con “Terror Shark”, tra l’ovazione generale dei presenti che danno inizio a quello che più che un concerto potrebbe definirsi un party: in tutti i tre giorni del festival la security non è mai stata così impegnata nel recuperare gente intenta a fare surfing, durante il quale si è svolta una vera e propria sfilata dei tipi più assurdi e divertenti, tra gente dai costumi improbabili o addirittura nuda (!!). La band ha recepito l’energia del pubblico e l’ha usata per galvanizzarsi a sua volta, proponendo una prestazione veramente devastante che ha raggiunto l’apice su canzoni come “Drunk As Shit”, “Beer Pressure”, “Sadistic Magician”, “Unleash The Bastards” o “Headbangers Face Rip”. Nemmeno dei problemi per il basso di Philip Hall, prontamente risolti, hanno guastato la festa ed il gruppo si è perfino lanciato in un siparietto proponendo due “brani” inediti, ovvero “Black Prez” e “I Want to Kill the President”, che riuniti in uno solo sono diventati “Black President”, ovvero un brano in pieno stile S.O.D. della durata di un secondo. L’esaltazione raggiunge livelli talmente alti che Tony Foresta invoca un wall of death che viene eseguito prontamente dai pazzi delle prime file, con effetti sulle persone coinvolte che preferiamo non scoprire. A chiudere degnamente i quaranta minuti a disposizione dei Municipal Waste arriva “Born To Party”, altro vero inno della band, che al termine del concerto lascerà sulla faccia di tutti i presenti espressioni di vero divertimento e piena soddisfazione. Sicuramente una delle esibizioni più intense e divertenti dell’intera tre giorni dell’Hellfest. (Michele “Coroner” Segata)



SETLIST:
Intro
Terror Shark
Headbanger Face Rip
Divine Blasphemer
Beer Pressure
The Thrashin' of The Christ
Wolves of Cernobyl
Drunk as Shit
Sweet Attack
Wrong Answer
Sadistik Magician
Black Prez
I Want to Kill the President
Unleashed the Bastard
The Art of Partying
Born to Party

THIN LIZZY
Ero molto titubante nell’assistere a un concerto dei Thin Lizzy del 2011, ma non avendoli mai visti dal vivo non potevo non essere lì, nonostante partissi dall’idea che davanti a me vi fosse solo una cover-band e non l’originale. E in un certo senso è stato così: la presenza di Phil Lynott è qualcosa di troppo importante per questa band e lui è uno che non si potrà mai sostituire. Tuttavia dopo un inizio incerto in cui hanno suonato una “Jailbreak” a dir poco moscia, la band si riprende ed è difficile anche per il mio fondato scetticismo rimanere impassibile davanti alla bellezza di “Whiskey in the Jar”, “The Boys are Back in Town” e la conclusiva “Black Rose”. Non saranno di certo i Thin Lizzy veri, ma questi sono dei brani immortali che faranno ballare anche la più stronza delle generazioni che verrà in futuro! Tra i vari ringraziamenti non poteva mancare un commovente omaggio al grande Gary Moore, scomparso di recente, che con loro fece una breve ma interessantissima collaborazione in passato. (Nico Irace)



SETLIST:
Are You Ready
Waiting For An Alibi
Jailbreak
Don’t Believe a Word
Whiskey in the Jar
Emerald
Cowboy Song
The Boys Are Back In Town
Rosalie (Bob Seger cover)
Black Rose

DESTRUCTION
Stiamo entrando nella fase calda di questa giornata thrashosa, visto che sul palco, a giro, stanno per salire i componenti della sacra triade tedesca. I primi a calcare le assi sono i Destruction. Era da un po’ che non mi imbattevo nella band di Schmier, e la curiosità maggiore era legata soprattutto a Vaaver, il nuovo drummer. Beh, chiariamo subito… il nuovo arrivo non è certo male, è veloce, è preciso, però gli manca quel po’ di violenza in più che il suo predecessore, Marc Reign, aveva invece da vendere. Insomma, non mi ha deluso del tutto, ma non mi ha neanche convinto appieno. Quelli che convincono sempre, invece, sono i due boss, Schmier e Mike, due vere e proprie macchine da guerra che sparano riff su riff con una potenza e una precisione incredibili. E con un inizo al fulmicotone come “Curse the Gods” e “Mad butcher” è difficile sbagliare. Piccola concessione alle ultime produzioni con “Amageddonizer” e “Hate is my fuel” e poi è un tripudio di classici, con la band a tenere, sul palco, una sorta di seminario sul thrash metal. E pensare che sono solo in tre, ma sembrano almeno il doppio… Schmier è in gran forma oggi, urla che è una bellezza, l’apparato scenico è ben oliato ormai, dopo anni passati in giro sui palchi di tutto il mondo, e la gente apprezza particolarmente, scatenando un pogo di dimensioni ciclopiche sulle note di “Nailed to the cross” o della mitica “Bestial invasion”. Il singer è una vecchia volpe, conosce bene il suo mestiere, ed ecco quindi che tiene l’intera platea nelle sue mani quando presenta la mitica “Eternal ban”. Ma non è ancora finita, c’è tempo per un ultimo assalto sonoro, quella “Total desaster” entrata di diritto tra i dieci brani thrash di sempre, che mette il sigillo allo show del trio del macellaio. La prima delle tre cartucce crucche è stata sparata, e ha fatto numerosi feriti. Ora starà a Sodom e Kreator raccogliere la sfida e dimostrare di saper fare di meglio. I Destruction dal canto loro ce l’hanno messa tutta e hanno dato vita ad uno show vitale e violento come solo loro sanno fare, uscendo a testa alta da questo ipotetico scontro fratricida, grazie anche ad una scaletta che giocava sul sicuro. Come sempre una garanzia dal vivo… (Roberto Alfieri)



SETLIST:
Curse The Gods
Mad Butcher
Armageddonizer
Hate Is My Fuel
Thrash 'Til Death
Nailed To The Cross
Bestial Invasion
Eternal Ban
Total Desaster

SODOM
Dopo aver approfittato dello show degli Apocalyptica per rifocillarmi e riprendere le forze, torno in trincea, perché sta per scendere in campo il panzer Sodom. Come nel caso dei Destruction, anche loro non li beccavo dal vivo da un po’ di tempo, e anche per loro nuovo drummer dietro le pelli. E anche qui voglio chiarire subito la situazione… Makka mi ha convinto molto più del suo collega Vaaver. Pur essendo entrato da pochissimo in formazione, sembra già molto ben integrato, picchia duro che è un piacere, e non fa rimpiangere più di tanto il suo predecessore Bobby. E lo dimostra fin dalla opener “In war and pieces”, bella grintosa e potente. Anche Zio Tom decide di andare sul sicuro (scelta che, alla fine, risulterà vincente, come per i Desctruction, ad esempio, nel confronto coi Kreator, forse un po’ troppo sbilanciati sulle nuove produzioni anche se comunque letali), e quindi una serie di classici immortali si scaglia sulle nostre povere orecchie martoriate, da “The vice of killing” a “Outbreak of evil”, da “M-16” a “Blasphemer”, non c’è respiro. Angelripper è ormai un frontman più che navigato, sa perfettamente come gestire palco e platee enormi anche essendo solo in tre sul palco, riesce a catalizzare l’attenzione, come quando fischietta il motivetto di “Wind of change” degli Scorpions, e subito dopo dice che nel 1989 in Germania non succedeva solo quello, ma usciva anche “Agent orange”, ed ecco quindi sparata in faccia proprio la mitica titletrack… C’è tempo anche per “The art of killing poetry”, secondo estratto dal validissimo “In war and pieces”, prima che la classica “Remember the fallen” chiuda uno show come sempre grandioso, che ci ha riconsegnato una band in formissima nonostante i recenti problemi di line up. Ottimo l’ultimo disco in studio, ottime anche le prove dal vivo, a quanto pare… se le premesse sono queste, direi di potermi azzardare a prevedere ottime cose per il futuro della band. E dei tre cuginastri, quindi, chi è che ha vinto l’ipotetica sfida? Beh, per i Kreator lascio la parola al fido Cory. Per quanto mi riguarda, invece, la mia personale classifica la stilo così: Sodom – Destruction – Kreator… (Roberto Alfieri)



SETLIST:
In War and Pieces
The Vice of Killing
Outbreak of Evil
The Saw is the Law
Sodomized
M-16
Agent Orange
The Art of Killing Poetry
Blasphemer
Remember the Fallen

BLACK LABEL SOCIETY
Sale sul palco vestito da indiano, si lancia in un interminabile assolo di almeno una decina di minuti, cambia una chitarra tra un pezzo e un altro quasi a voler mostrarci tutta la sua eccentrica collezione e con la sua presenza oscura praticamente qualsiasi altro membro della sua band. Chi altri potrebbe essere se non il vecchio Zakk?? Ammetto di non essere mai stato un grande fan dei Black Label Society, ma vedere suonare e cantare dal vivo questo ragazzo del New Jersey fa davvero un bellissimo effetto. Aldilà delle immancabili “Funeral Bell” e la conclusiva “Stillborn”, i ragazzi suonano tutti pezzi presi dai dischi tirati fuori negli ultimi anni, da “Mafia” (2005) in poi per capirci. Personalmente avrei gradito qualche chicca in più, magari riducendo un po’ l’assolo di chitarra che per quanto possa essere spettacolare dopo finisce per stancare. Mi sarebbe piaciuta una collaborazione con Ozzy nella serata successiva, ma le mie speranze sono state vane. D’altronde credo che non si siano lasciati molto bene il Madman e Zakk… (Nico Irace)



SETLIST:
Crazy Horse
Funeral Bell
Bleed for Me
Overlord
Parade of the Dead
Fire it Up
Guitar Solo
Godspeed Hell Bound
Suicide Messiah
Concrete Jungle
Stillborn

D.R.I.
Lo ammetto, questo è un altro dei motivi per cui sono qui all’Hellfest, riuscire a vedere, finalmente, quella furia della natura che risponde al nome di D.R.I.. Ho sempre amato il thrashcore, quindi chi più di loro, che ne sono gli artefici, può farmi passare una quarantina di minuti in estasi totale scapocciando come un ossesso sotto al palco? Il timore di trovare una band spenta o senza più la grinta di una volta era più che lecito. Fortunatamente hanno fatto il loro ingresso sul palco quattro cazzoni che di invecchiare non ne vogliono proprio sapere nulla… A portare avanti la baracca troviamo i soli Kurt Brecht e Spike Cassidy della formazione originale, rispettivamente voce e chitarra, anche se gli altri due compagni sono nella band da ormai 20 anni, quindi direi che ci siamo… Se Spike è un po’ più in disparte, limitandosi a sfoderare riff su riff, Kurt non si fa certo pregare, e salta da una parte all’altra del palco come un ossesso, coadiuvato, per quanto riguarda l’aspetto scenico, proprio dal “nuovo” Harald Oimoen al basso, che peraltro sfodera delle maschere quanto meno improbabili dimostrando di avere decisamente senso dell’humor. E della musica cosa dire? Schegge impazzite si rincorrono l’un l’altra, con un repertorio che non disdegna interessantissimi ripescaggi del primissimo repertorio più propriamente hardcore, come “Couch slouch”, giusto per fare un nome, sapientemente miscelati a quelli del secondo corso, quello thrashcore, con brani, quindi, come “Acid reign”, “Thrash zone” e via dicendo. Piacevolmente colpito dalla bontà del loro show, mentre assisto al loro massacro mi vien da pensare ai Municipal Waste e a tutto il clamore che hanno suscitato loro e mille altre band cloni in questi anni. Per carità, io adoro la band di Tony Foresta e co., però quando mi trovo davanti gli originali non posso far altro che sorridere, e pensare che i pochi, ma buoni, accorsi sotto al Terrorizer Tent per guardare i D.R.I. hanno fatto la scelta migliore, alla faccia di tutti gli altri… A questo punto la mia speranza è che le voci che da tempo si rincorrono relative ad una loro calata in terra italica, diventino finalmente realtà. Che il massacro abbia inizio… (Roberto Alfieri)



KREATOR
Memore del grandioso spettacolo che i thrasher tedeschi Kreator offrirono al Wacken 2009, mi appresto a seguire con interesse e speranza lo show del gruppo guidato dall’inossidabile Mille Petrozza. Per correttezza devo ammettere che la mia conoscenza della discografia del gruppo è ferma sostanzialmente a “Violent Revolution”, e che il mio interesse verso altre forme espressive e generi mi ha sempre trattenuto dal colmare questa mia lacuna. Lo show dei tedeschi inizia appunto con “Hordes Of Chaos”, un brano che ho trovato stabilizzato sulla formula post “Violent Revolution” ma che, nonostante un impatto live tutt’altro che deficitario, in sé non mi è parso così esaltante. Stesso discorso per la successiva “Warcurse”, ma per fortuna “Endless Pain” e la classica ed immancabile “Pleasure To Kill” vengono a spezzare l’andamento di un concerto che temevo sarebbe stato troppo incentrato sulla produzione più recente (che per quanto di buon livello non può competere con un “Extreme Aggression”, tanto per dire). Nulla da ridire circa la tenuta del palco di Petrozza e del resto della band, assolutamente devastanti e in grado di creare un’energia nel pubblico che subito non si fa pregare nello scatenarsi nelle prime file, con pogo e circle pit. Il tuffo nel passato storico della band dura poco purtroppo, perché intervengono “Destroy What Destroys You”, “Voices of the Dead” e “Enemy of God” a riportarci nel 2011. Il pubblico comunque non pare infastidito dalla scelta dei pezzi, ed anzi accompagna partecipe tutto lo show dei Kreator, dimostrando grande apprezzamento per la band tedesca. Oltretutto il gruppo mette in mostra una tenuta del palco ed un carisma magnetici, ai quali risulta difficile resistere nonostante l’ora tarda e la fatica accumulata durante tutta la giornata. Una piccola concessione a “Phobia” (brano di grande successo, ma che a me non è mai piaciuto particolarmente) e “Terrible Certainty”, che vede come sempre il buon Jürgen Reil al microfono, prima che Mille Petrozza e soci si congedino dall’Hellfest con un trittico in chiusura potente e devastante: preannunciata dalla melodica e cantata da tutti i presenti “The Patriarch”, il gruppo sfodera una “Violent Revolution” che senza dubbio è la più grande hit dei Kreator post 2000, in grado di scatenare un putiferio che solamente le successive ed immancabili “Flag Of Hate” e “Tormentor” riescono ad eguagliare. Come riassumere quindi il concerto per chi non l’ha vissuto dal vivo? Per quel che riguarda il mero aspetto esecutivo e spettacolare, i Kreator dal vivo si confermano una band di assoluto valore e dall’invidiabile presenza e carisma, merito soprattutto di un frontman trascinante come Mille Petrozza. Qualcosa da ridire personalmente lo avrei per quel che concerne la setlist proposta, nettamente sbilanciata sul nuovo materiale e che per quel che mi riguarda poteva offrire qualche classico in più, considerando anche il fatto che la band si esibiva in un festival e che il tempo a disposizione non era poi troppo. Un concerto dei Kreator senza “Extreme Aggression” lo trovo francamente inimmaginabile. Tuttavia a giudicare dalla risposta e dalla partecipazione del pubblico, mi viene da pensare che questo sia un problema solo mio. (Michele “Coroner” Segata)



SETLIST:
Hordes of Chaos (A Necrologue for the Elite)
Warcurse
Endless Pain
Pleasure to Kill
Coma of Souls/Destroy What Destroys You
Voices of the Dead
Enemy of God
Phobia
Terrible Certainty/Reconquering the Throne
The Patriarch
Violent Revolution
Flag of Hate/Tormentor

SCORPIONS
Con elegante ritardo come solo i grandi possono permettersi, 10 minuti più in là sulla tabella di marcia, sulle note di “Sting in the tail”, fanno il loro ingresso sul Main Stage 01 gli Scorpions. Inizia lo show, mastodontico, e una considerazione mi arriva spontanea in testa: come può sentirsi una band come gli Scorpions, dopo quarant’anni di carriera, hit in classifica per mesi, tour mondiali in ogni dove, popolarità a manetta, e chi più ne ha più ne metta? Evidentemente non devo essere stato l’unico a porsi questa domanda, visto che, ormai è risaputo, questo qui a cui sto (fortunatamente) assistendo, è l’ultimo tour degli scorpioni tedeschi. E ad essere sinceri, a guardare bene la band in azione, non so fino a che punto sia una decisione sbagliata. Se nulla c’è da dire sulla sezione ritmica, molto vitale e carica, ma è normale l’entusiasmo per gli ultimi due arrivati, nulla da dire, tutto sommato, neanche per le due asce, in particolare per Jabs, anche se l’impressione che si ha è che si limitino a fare, al meglio, per carità, il loro lavoro. Chi dà invece proprio l’impressione di non volerne sapere più è proprio il buon Klaus Meine. Sia dal punto di vista vocale (lontani i picchi qualitativi dei primi anni ’90), ma soprattutto per quanto riguarda l’aspetto scenico: si muove svogliatamente da una parte all’altra del palco, quasi cammina, ed è palese che ormai quei panni gli stanno più che stretti. Peccato, davvero, perché per il resto la band continua a dare punti a decine di nuove leve, e lo dimostra ancora di più nella seconda parte di show, da “Dynamite” in poi, per capirci, dove tutto diventa un po’ più vero e più sentito, meno “lavoro” e più “passione”, forse anche grazie all’entusiasmo del pubblico che non ha fatto altro che sostenere i propri beniamini dall’inizio dello show. In ogni caso, amare (quanto inevitabili) considerazioni a parte, il quintetto ci delizia per un paio d’ore andando a pescare a piene mani tra i suoi classici del periodo ‘79/’84, con apici, come è facile intuire, raggiunti in “Blackout”, nella già citata “Dynamite”, e in “Big city nights”, brani in cui, finalmente, anche Meine sembra darsi una svegliata. Ci si avvicina alla conclusione, non prima però di dare spazio a Mattias Jabs e a James Kottack per i propri rispettivi (e lunghi) assoli. Stiamo pur sempre parlando degli Scorpions, però, infatti non sono molte le band che possono vantare la possibilità di sparare, come bis, due brani del calibro di “Still loving you” e “Rock You Like A Hurricane”, con la quale la band si congeda dal pubblico tra le ovazioni generali. Cosa dire, un concerto dal sapore dolce/amaro. Da un lato la consapevolezza di trovarsi di fronte ad una band storica che cerca comunque di dare ancora il massimo on stage, unita al fatto che probabilmente questa sarà stata l’ultima occasione di vederla all’opera su un palco. Dall’altra qualche ombra legata alla forma non proprio strabiliante di Meine, e a qualche piccolissima imprecisione qua e là. Nel complesso, però, direi che posso ritenermi più che soddisfatto, e di poter raccontare, ai miei nipoti, di aver visto, almeno una volta in vita mia, i mitici Scorpions… (Roberto Alfieri)



SETLIST:
Sting In The Tail
Make It Real
Bad Boys Running Wild
The Zoo
Coast To Coast
Loving You Sunday Morning
The Best Is Yet To Come
Holiday
Raised on Rock
Tease Me Please Me
Dynamite
Kottak Attack
Blackout
Six String Sting
Big City Nights
Encore:
Still Loving You
Rock You Like A Hurricane

BOLT THROWER
Con gli Scorpions che suonano sul palco principale non è certo un’impresa facile riempire il Rock Hard Tent. A meno che non ti chiami Bolt Thrower e puoi vantare una carriera esempio fulgido di coerenza ed onestà verso i fans. Allora il gioco è fatto… Al mio arrivo sotto al tendone c’è gente assiepata in ogni dove ad accogliere l’ennesima chicca di questo festival, che sale sul palco sulle note di “The IVth Crusade”, ed è subito massacro. I Bolt Thrower, l’abbiamo detto, sono un’istituzione del death metal mondiale, e oltretutto il fatto che non suonino così di frequente rende ogni loro singolo show un piccolo evento, sia per la gente che vi partecipa, sia per la band stessa, che, galvanizzata come non mai, dà tutta sé stessa per non lasciare delusi i propri beniamini. Niente fronzoli inutili, niente sterili trovate sceniche, soltanto tanti fottutissimi riff macinati uno di seguito all’altro, sui quali va a scagliare la propria ira il singer Karl Willets, col suo growl particolarissimo. La band vuole rompere qualche culo stasera, e togliersi qualche sassolino dalle scarpe, e vi assicuro che ci riesce alla grande, con una performance granitica che nulla lascia all’immaginazione. Emblema dello stato d’animo del gruppo è la faccia di Jo Bench (vedete se riuscite a scorgerla nelle foto qui a lato), incazzata e motivata come poche, che meglio di ogni altra cosa fa capire quanto impegno e passione stia mettendo la band nello show di questa sera. I classici si susseguono, da “Cenotaph” a “No guts, no glory”, senza scordare qualche estratto più recente. Ma questa sera la scaletta non sembra fare molta differenza, il pubblico reagisce comunque alla grande e supporta la band in un’atmosfera che sa molto di primi anni ’90, in una sorta di viaggio a ritroso nel tempo. Nella giornata del trionfo del thrash ci hanno pensato i Bolt Thrower a ricordare alla gente che il death metal, checché se ne dica in giro, è vivo e vegeto, e continua a maciullare corpi in giro per il mondo… (Roberto Alfieri)



SETLIST:
The IVth Crusade
The Killchain
Powder Burns
When Glory Beckons
World Eater
Cenotaph
Anti-Tank
Where Next to Conquer
Silent Demise
Salvo
...For Victory
No Guts, No Glory
Encore:
When Cannons Fade

CORONER
Credo che questo sia il live report in assoluto più difficile che mi sia mai trovato a scrivere nel corso della mia “carriera” di scribacchino di Metal.it. È veramente impossibile per me riuscire a descrivere in maniera efficace e fedele tutte le emozioni, le sensazioni, gli stati d’animo che mi hanno sfiorato durante l’esibizione degli svizzeri Coroner, esibizione che mi porterò nelle orecchie e soprattutto nel cuore per tutta la mia vita. Per quel che riguarda il mio personalissimo vissuto, quello dei Coroner non è stato un semplice concerto, bensì la realizzazione di un sogno che fino ad un anno fa ero convinto sarebbe rimasto tale per sempre. Sorvolando sulla scelta di farli esibire all’1 di notte anziché come headliner veri e propri, la band si trova ad esibirsi sul Main Stage 02, per l’occasione allestito con un semplicissimo telone che reca solamente il logo del gruppo. L’emozione è palpabile, e terminata l’esibizione degli Scorpions lo staff dell’Hellfest regala un omaggio al defunto Patrick Roy, un politico francese molto noto per la sua passione per il metal, che lo ha portato anche a difendere il festival in contesti ufficiali. I fuochi d’artificio si sprecano sulle note di “For Those About To Rock... We Salute You”, mentre sui maxischermi vengono proiettate foto di Roy all’Hellfest tra i partecipanti al festival. In chiusura del video vengono anche ricordati Ronnie James Dio e Pete Steele, un momento di grande commozione e unione. Conclusa questa doverosa parentesi, i Coroner possono fare il loro ingresso sul palco dove iniziano a suonare “Golden Cashmere Sleeper Part 1”, uno degli ultimi brani composti prima dello scioglimento. I suoni sono potenti e ottimamente calibrati, il gruppo è in palla come se non si fosse mai fermato e l’emozione inizia a farsi palpabile, con un nodo che mi si forma in gola. Già sulla successiva “Internal Conflicts”, estratta dall’inarrivabile “Grin”, le lacrime mi bagnano gli occhi: il sogno è finalmente realtà! Alla batteria Maquis Marquy non perde un colpo, la voce ed il basso di Ron Royce, nonostante gli anni sul groppone inizino ad essere tanti, emozionano come su disco, mentre la chitarra di Tommy Vetterli non perde per strada nemmeno una nota, a dimostrazione che si tratta di uno dei musicisti più geniali ed impunemente ignorati della scena metal. Fortunatamente non è mai troppo tardi, ed i Coroner possono godersi il meritatissimo tributo che il pubblico caloroso dell’Hellfest elargisce loro. Dopo due pezzi “moderni”, è il turno di qualcosa di più thrash oriented con “Masked Jackal”, resa in maniera perfetta dal gruppo. Purtroppo la band ha a disposizione solamente 60 minuti, e propone al pubblico alcuni tra i brani più belli e significativi della propria carriera, come le devastanti “Divine Step (Conspectu Mortis)”, “Semtex Revolution”, “D.O.A.” o “No Need To Be Human”, a cui si affiancano le più sperimentali e contaminate “Status: Still Thinking” e “Grin (Nail Hurts)”, a rappresentare degnamente le due anime di questa band leggendaria e che non ha mai trovato (e mai troverà) eguali nel panorama metal. Il tempo è tiranno, e come si suol dire tutte le cose belle hanno una fine: manca poco all’una quando Ron Royce annuncia che i Coroner eseguiranno l’ultimo pezzo per stasera, e chi li conosce sa bene che si tratta di “Reborn Through Hate”, una rasoiata di thrash tecnico nel pieno stile del gruppo. Non esagererei se affermassi che quello di questa sera è stato il concerto più atteso, voluto, emozionante di tutta la mia vita, e molto probabilmente nessun’altra band o evento sapranno darmi gli stessi brividi. L’unico piccolo rammarico è stata l’assenza dalla setlist di “Serpent Moves”, uno dei miei brani preferiti del gruppo ma che spero che eseguiranno durante il loro concerto in Italia a Settembre. Per il resto mi sento solo di dire un enorme GRAZIE a questa incredibile formazione, per tutta la stupenda Musica che hanno composto e per l’indimenticabile spettacolo offerto questa sera. Ci rivediamo in Italia! (Michele “Coroner” Segata)



SETLIST:
Golden Cashmere Sleeper, Part 1
Internal Conflicts
Masked Jackal
Status: Still Thinking
Metamorphosis
D.O.A.
Semtex Revolution
Divine Step (Conspectu Mortis)
Grin (Nails Hurt)
Encore:
Reborn Through Hate

TRIPTYKON
Questa è stata sicuramente una delle sovrapposizioni più dolorose dell’intero festival. Decidere di lasciare lo show dei Coroner non è stato affatto facile, ma in questo scontro tutto svizzero alla fine ha prevalso il buon Fischer, che mi ha fatto schiodare le chiappe dal Main Stage 02 e me le ha fatte portare sotto il tendone di Rock Hard. Beh, non me ne vogliano i fans del trio di Royce, ma alla fine sono stato contento così, in quanto quello che ho trovato è stato ben più di un concerto. Sul piccolo palco, in un’atmosfera surreale, cupissima, davanti a non tantissima gente, il buon Fischer stava mettendo in atto un vero e proprio rituale macabro. È incredibilmente difficile cercare di spiegare a parole le atmosfere che i nostri sono riusciti a mettere su, in un amalgama perfetto tra musica, luci, e personaggi stessi. I brani sono quasi tutti presentati in maniera lentissima, morbosa, ricchi di groove, come, appunto, se invece che ad uno show si stesse prendendo parte a qualcosa di più elevato e Tom fosse il gran cerimoniere. Che la sua sia una menta malata ormai molto vicina al tracollo traspare da ogni singola nota suonata dal chitarrista e ancor più emessa dalla sua ugola infernale. Tom soffre mentre suona, dà tutto sé stesso, e combatte, ancora una volta, con i suoi demoni interiori. L’unica perplessità che mi ha lasciato lo show è legata al fatto di presentare ben quattro pezzi, su otto, dei Celtic Frost, quest’altra strana entità dalla quale Tom vuole ma non potrà mai separarsi realmente e che lo perseguiterà per tutta la vita. Intenso, non riesco a trovare altre parole per descrivere lo show dei Triptykon, con Fischer supportato alla perfezione dai suoi compagni di avventura, che producono un muro sonoro veramente notevole. Uno show che avrebbe fatto impallidire il più doom dei gruppi doom, credetemi… Tom Gabriel Fischer può anche questo… (Roberto Alfieri)



SETLIST:
Crucifixus
Procreation (of the Wicked) (Celtic Frost cover)
Goetia
Circle of the Tyrants (Celtic Frost cover)
Babylon Fell (Celtic Frost cover)
Synagoga Satanae (Celtic Frost cover)
The Prolonging
Winter

Foto a cura di Roberto Alfieri
Report a cura di Roberto Alfieri

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