ATHEISTLa prima band del terzo giorno che attira la mia attenzione sono gli storici techno-deathster americani Atheist, freschi del nuovo “Jupiter”. I gruppo capitanato dal biondo Kelly Shaefer fa la sua comparsa sul Main Stage 02 ed attacca il concerto con un brano da infarto, nonché classico immortale, come “Unquestionable Presence”: non so se fosse la mia posizione (leggermente defilata sulla destra del palco), ma l’impressione che ho avuto è stata che il gruppo godesse di suoni meno potenti e calibrati rispetto agli altri gruppi, con volumi un po’ pasticciati e sballati. Poco male, gli Atheist fanno valere tutta la loro caratura tecnica sul palco e ripropongono in maniera molto fedele alla versione da studio i brani della loro setlist. Dopo un secondo classico come “On They Slay”, gli Atheist pescano dall’ultimo album in studio l’opener “Second To Sun”, che sebbene non possa tenere testa alla produzione passata del gruppo, dal vivo riesce a fare egregiamente il proprio dovere riscuotendo consensi tra il pubblico. Devo dire che qualche dubbio sulla resa live degli Atheist lo avevo, temendo che l’alto tasso tecnico della loro musica finisse per “ammazzare” un po’ il feeling del concerto, ma quest’oggi il gruppo mi ha dimostrato come i miei timori fossero infondati: non solo infatti il gruppo appare preciso, ma anche per quel che riguarda la presenza scenica i cinque americani offrono un grande spettacolo, con Shaefer ovviamente in primissimo piano. C’è tempo per omaggiare anche “Elements” con “Mineral” (mi spiace, Graz niente “Samba Briza”!), prima che “Live and Live Again” venga proposta come secondo e ultimo estratto del nuovo disco. I tre quarti d’ora a disposizione degli Atheist vengono quindi suggellati dall’esecuzione di due classici del death metal tecnico come “Mother Man” e “Piece Of Time”, perfetta chiusa di un concerto decisamente valido e coinvolgente. Peccato per quella sensazione di suoni non sempre all’altezza, che mi ha fatto pensare che il concerto avrebbe potuto essere ancora migliore. (Michele “Coroner” Segata)
SETLIST:
Unquestionable Presence
Your life’s retribution
On They Slay
Second to Sun
Mineral
Live and Live Again
Retribution
Mother Man
Piece of Time
DUFF MC KAGAN’S LOADEDPosso essere schietto e sincero? I Duff Mc Kagan’s Loaded sono una cagata mostruosa al pari della Corazzata Kotiomkin, come direbbe il buon Fantozzi. Il classico esempio di come sfruttare unicamente il proprio (famosissimo) nome e non anche altro, come per esempio il talento, visto che il personaggio in questione ne possiede abbastanza. Una sorta di punkettino/rockettino innocuo che non metterebbe pensieri neanche a mia nonna, sul quale si va a scagliare la voce del biondo chitarrista (tornato alle origini qui) che nulla apporta alla proposta musicale, anzi, in più di un frangente finisce di affossarla. E a nulla serve ripescare un paio di brani dei mitici Guns per andare sul sicuro, perché non è così che si riescono a risollevare le sorti di uno show scialbo e piatto. Non me ne voglia il buon Duff, personaggio peraltro che ha sempre nutrito della mia stima, ma non ci siamo proprio. Non riesco a trovare una sola singola cosa che possa risultare positiva. Mi spiace, ma i fans meritano ben altro… E pensare che solo poco prima avevamo assistito (purtroppo in maniera light, ma era ora di pranzo), allo splendido show degli Orphaned Land, di tutt’altro spessore, capaci di ammaliare i presenti con le loro splendide melodie, nonché meritevoli della stella al migliore momento del festival quando il singer Kobi Fahri fa uno splendido discorso sull’importanza della musica e sulla sua capacità di riuscire ad unire con estrema facilità medio oriente ed occidente… e se lo dice lui tocca credergli per forza… (Roberto Alfieri)
SETLIST:
Executioner’s Song
We Win
Dead Skin
Dark Days
Seattlehead
Sick
Follow Me to Hell
Your Name
Lords of Abbadon
Attitude (Misfits cover)
It’s So Easy (Guns n’ Roses cover)
TSJUDEREffettivamente non erano tante le band black metal nel cartellone dell’Hellfest. Vista la pochezza dello show di Duff, decido, quindi, di recarmi sotto al Rock Hard Tent per assistere allo show degli Tsjuder, micidiale terzetto black proveniente, tanto per cambiare, da Oslo. L’atmosfera è gelida sotto il tendone, complice anche il vento freddissimo che non c’ha mai abbandonato durante questi tre giorni, ma, a dirla tutta, l’hanno resa tale proprio i tre loschi figuri, che incuranti di tutto hanno sparato sulla (numerosa, bisogna dirlo) folla 50 minuti di ferale black metal, di quello decisamente in your face. Non me ne vogliano gli amanti della band, ma ho sempre seguito il gruppo molto di sfuggita, quindi non starò qui a fare un impossibile track to track dello show. Posso però dire che il trio picchia veramente duro, propone un black senza compromessi, e la gente sembra proprio apprezzare la sua attitudine nichilista e distaccata. Niente sterili proclami, niente interazione col pubblico (giammai), solo incalcolabile violenza sonora, con brani veloci retti da fulminanti blast beat e schitarrate a motosega tipiche del genere. Pur non amando alla follia il genere devo ammettere che lo show è stato assolutamente valido, ma soprattutto è stato una più che degna alternativa allo scempio che stava mettendo in atto Duff sull’altro palco. Più che promossi… (Roberto Alfieri)
GHOSTSebbene non siano uno dei nomi più altisonanti di questo Hellfest 2011, aspettavo con grande ansia l’esibizione degli svedesi Ghost, che l’anno scorso mi stupirono molto positivamente con il loro debut album “Opus Eponymous”: l’eccezionale proposta musicale, unita ai costumi sinistri e all’iconografia sinistra e satanica del gruppo, hanno fatto il resto. A quanto sembra non sono l’unico ad apprezzare il gruppo, considerata la grande folla che occupa la Terrorizer Tent durante l’esibizione dei Ghost, costringendomi a seguirli da una posizione non esattamente privilegiata. Poco male, la band fa il suo ingresso sul palco sulle note di “Deus Culpa” e partendo con “Con Clavi Con Dio”, sfoggiando i consueti costumi di scena che danno ai loro show quel tocco sinistro e malvagio che si sposa ottimamente con l’“horror rock” proposto dagli svedesi. Il pubblico mostra sin da principio il proprio apprezzamento per la band, applaudendo e acclamando a gran voce il gruppo tra un pezzo e l’altro e persino durante l’esecuzione dei brani della setlist, che giocoforza va a ricoprire la quasi totalità del disco di esordio. La prova strumentale dei Ghost è inattaccabile e persino la voce del singer dal vivo non fa assolutamente rimpiangere la prova su album, non steccando mai a dimostrazione che anche in sede live gli svedesi sanno il fatto loro. C’è spazio anche per una cover della celebre “Here Comes The Sun” dei Beatles, resa nello stile cupo e maligno tipico dei Ghost, tanto da farla sembrare una canzone tutt’altro che allegra come nella versione originale. Il loro concerto è stato sicuramente uno dei più belli dell’intero festival, con picchi raggiunti sulle stupende “Elizabeth”, “Death Knell”, “Satan Prayer” e “Ritual”. Credo che molti dei presenti che magari non conoscevano questa fenomenale band siano rimasti folgorati esattamente come rimasi io al tempo del primo ascolto di “Opus Eponymous”. A questo punto speriamo che vengano presto anche in Italia a predicare i loro versetti satanici. (Michele “Coroner” Segata)
SETLIST:
Deus Culpa
Con Clavi Con Dio
Elizabeth
Death Knell
Satan Prayer
Prime Mover
Genesis
Here Comes The Sun (The Beatles cover)
Ritual
CAVALERA CONSPIRACYQuesti sono i concerti che ti fanno veramente incazzare nero… Si è detto tutto e il contrario di tutto relativo alla vicenda Sepultura, e non mi sembra questo il luogo adatto per riapre le ostilità. Al di là di chi abbia ragione o meno, nessuno può negare, però, che quando i fratelli stanno su un palco insieme non ce ne è per nessuno, e il vero spirito della band risiede proprio in loro. E non solo quando, naturalmente, i nostri ripescano brani storici dei Sep come “Refuse/resist”, “Territory” o “Roots bloody roots”, ma anche quando propongono loro brani inediti come “Inflikted” o “Sanctuary”, che in sede live acquistano una cattiveria disumana, e fanno correre la testa moooolto indietro ai tempi d’oro della band madre. Certo non è tutto oro quel che luccica, però Igorr pesta ancora come un ossesso dietro il suo drum kit, e Max, nonostante sia ormai imbolsito, ha sempre un vocione che mette paura, e resta pur sempre una ritmica schiaccia sassi con la sua chitarra. Quindi Kisser vedesse cosa diavolo deve fare, mettesse l’anima in pace perché l’unica decisione saggia è restituire il nome e la dignità di una band a chi ne ha veramente diritto… Al di là delle polemiche, c’è da dire che la band dal vivo rende parecchio e dà vita ad uno degli show più violenti ed intensi dell’intero festival. D’altra parte al di là dei fratellini c’è pur sempre un certo Mark Rizzo alla seconda chitarra, quindi sanno il fatto loro. Ovviamente un concerto dei Cavalera non è tale se le nuove leve non fanno il proprio ingresso sul palco, ecco quindi arrivare prima Ritchie su “Black ark” e poi il piccolo Igor addirittura alla batteria per una cover di “Cockroaches” dei Nailbomb. In fondo, si sa, stiamo pur sempre parlando di una piccola grande tribù, quindi cose del genere sono all’ordine del giorno… (Roberto Alfieri)
SETLIST:
Warlord
Inflikted
Sanctuary
Terrorize
Refuse/Resist (Sepultura cover)
Territory (Sepultura cover)
The Doom Of All Fires
Killing Inside
Blunt Force Trauma
Ultra-Violent
Black Ark (with Ritchie Cavalera on second vocals)
Cockroaches (Nailbomb cover) (with Little Igor on drums)
Roots Bloody Roots (Sepultura cover)
GRAVEDopo averli visti in grandissimo spolvero nonostante una bassa affluenza in quel di Brunico questo inverno e conscio del fatto che la band svedese avrebbe riproposto per intero lo storico album di debutto “Into The Grave” per festeggiarne i 20 anni che ricorrono proprio nel 2011, mi sono appropinquato alla Rock Hard Tent per assistere allo show dei Grave. In generale sono molto critico e scettico verso quei gruppi che decidono di eseguire interamente in sede live i loro album di maggior successo, soprattutto perché in questo modo viene a mancare completamente l’effetto sorpresa che rende i concerti un’emozione unica. Tuttavia, nutrendo un’ammirazione e un attaccamento quasi morboso verso il primo album di Ola Lindgren e compagni, questa volta mi sono permesso un piccolo strappo alla regola: guadagnata abbastanza agilmente la prima fila, il gruppo fa il suo ingresso sul palco con la solita freddezza tipica degli svedesi, a da fuoco alle polveri con la grandissima “Deformed”, che ho quindi il piacere di riascoltare dal vivo dopo 3 anni. L’affluenza è più che buona e la band sembra essere veramente in forma, trascinata da un Ola Lindgren che quando si tratta di interagire con i presenti lascerà pure a desiderare, ma se c’è da spingere ai mille all’ora con la sua chitarra e con la voce non si fa certo pregare. Inutile stare qui a disquisire sulla prevedibile setlist, che ha raggiunto su brani storici come “Into The Grave”, “Extremely Rotten Flesh”, “Hating Life”, la già citata “Deformed” e “For Your God” i propri apici, con dei Grave che hanno saputo reagire alla grande all’entusiasmo del pubblico fornendo una performance incazzata e devastante. I 45 minuti messi a disposizione del gruppo paiono essere fatti apposta per contenere le 11 canzoni della setlist, ed il gruppo lascia senza troppi convenevoli il palco dopo la terremotante “Banished To Live”. Quest’oggi chi era sotto la Rock Hard Tent ha assistito ad un giusto tributo ad uno degli album più belli e rappresentativi del death svedese e non solo, oltre che a una vera e propria lezione di death metal. Immensi. (Michele “Coroner” Segata)
SETLIST:
Deformed
In Love
For Your God
Obscure Infinity
Hating Life
Into the grave
Extremely Rotten Flesh
Day of Mourning
Haunted
ANATHEMAÈ incredibile… ci sono riusciti di nuovo, pensavo di non farmi fregare questa volta, e invece l’hanno fatto di nuovo… Gli Anathema hanno questo potere incredibile, è inutile cercare di sottrarsi… Vi spiego… Visto che li avevo già visti live altre volte e le forze iniziavano a mancare, avevo deciso di dare uno sguardo all’inizio dello show, come giusto tributo ad una delle band più umili e simpatiche del mondo, e poi pian piano allontanarmi, per cazzeggiare, o al max affacciarmi al concerto dei Grand Magus, che si esibivano in contemporanea. Beh, già il modo come la band entra sul palco, che poi è il solito, e cioè in silenzio, senza clamori, in tutta tranquillità, mi colpisce, per l’ennesima volta. Poi attaccano “Thin air”, splendida… Inizia “Summernight horizon”, e il trip continua, decido di ascoltare anche questa… alla fine mi sono ritrovato sotto al palco fino all’ultima fottutissima nota di “Fragile dreams” suonata dai fratelli Cavanagh, letteralmente RAPITO dalla stupenda musica che fuoriusciva dalle casse. Non sono riuscito a smuovermi, sarebbe stato veramente un delitto, e quindi ne ho approfittato per osservare la gente intorno a me e cercare di capire da dove arriva la forza degli Anathema. La band ha abbandonato le sonorità più estreme ormai da anni, ma ciononostante continua ad essere invitata a festival metal, e MAI, e sottolineo MAI, c’è stato un cenno di disapprovazione da parte del pubblico verso la loro proposta, anzi, sono sempre stati applauditi e supportati quasi all’unisono. Se non è forza questa, ditemi voi… La loro è MUSICA con la M maiuscola, che riesce a rapire tutti, dai più sensibili ai più estremi (non sono pochi gli individui che fino a poco prima si smaciullavano nel pogo che ora ciondolano beati sulle note della band…). Quando il gruppo suona ti trasporta in un’altra dimensione, il loro show è un vero e proprio trip dal quale è difficile tornare. Resti infatti almeno un quarto d’ora imbambolato quando tutto è finito, quasi triste, e ti chiedi: e ora? Poi la caciara del festival ti riporta alla realtà, il palco è già vuoto da tempo e tu ti rendi conto di dove sei e cosa stai facendo e riprendi la tua vita normale… Esperienza extrasensoriale… Rapito a Clisson, fortunatamente restituito senza riscatto… (Roberto Alfieri)
SETLIST:
Thin Air
Summernight Horizon
Dreaming Light
Closer
A Natural Disaster
Deep
A Simple Mistake
Fragile Dreams
GRAND MAGUSHeavy metal classico, epico ed oscuro. Questo è il fuoco con cui i tre svedesi hanno scaldato il pubblico dell’Hellfest. Solennemente potenti, i Grand Magus hanno sfoggiato una set-list presa dagli ultimi due dischi in studio. Qualcuno può storcere il naso perché li preferiva più stoner, come nel primo disco, o più doom, con nel secondo “Monument”, ma quella che è venuta fuori in questa Domenica pomeriggio è la vera natura dei Grand Magus, fatta di montagne innevate, borchie, spade e lupi. L’intensa epicità di brani come “Silver into Steel”, “Iron Will” e “Hammer of the North” hanno fatto cantare ed emozionare i metal-heads presenti, tutti uniti nel più ignorante dei Valhalla, con corna alzate in una mano e un boccalone di birra nell’altra! Non nascondo che sarebbe piaciuto anche a me ascoltare qualche pezzo di “Monument”, però rispetto alla prima volta che li vidi qualche anno fa non posso fare a meno di notare un netto miglioramento dal vivo, e vedere la band che sembra sentirsi completamente a suo agio in questa nuova epica dimensione. (Nico Irace)
SETLIST:
Kingslayer
Like The Oar Strikes The Water
Silver Into Steel
I, The Jury
Hammer Of The North
Ravens Guide Our Way
The Shadow Knows
Iron Will
MR. BIGDopo il trip Anathema ci vuole proprio un po’ di rock per tornare con i piedi a terra. Cosa di meglio, quindi, dello show che i Mr. Big stanno per iniziare sul Main Stage 01? Ammetto di trovarmi davanti alla band per la prima volta in vita mia, quindi la curiosità è parecchia. Devo dire subito una cosa: fin dalle prime note di “Daddy, brother, lover, little boy” si capisce immediatamente che la band è in grandissimo spolvero e che ci aspetterà un ottimo show, e infatti così sarà. La voglia di suonare dei nostri è palpabile, non sono su questo palco solo per portare a casa la pagnotta, il che la dice lunga sulla bontà della loro reunion. Qui stiamo parlando di MUSICISTI, giocano coi loro strumenti, li conoscono fin nei più remoti meandri, ma quello che li distingue da altre band tecniche che magari si sono esibite anche su questi palchi questi giorni (vedi Pain of Salvation, bravissimi, per carità, ma m’hanno fatto scendere il latte alle ginocchia a metà del secondo brano…) è che loro la tecnica la usano ai fini delle canzoni, e non solo per fare gli sboroni o perdersi in arzigogoli inutili e fini a se stessi. Per i Mr. Big la cosa principale è coinvolgere, e ci riescono alla grande, sia grazie ad una manciata di brani veramente notevole (“Colorado bulldog”, “Addicted to that rush”, “Alive And Kickin’” e via dicendo), sia grazie alla loro maestria sugli strumenti, sia grazie alla loro capacità di showman, tutti e quattro, nessuno escluso. D’altra parte stiamo parlando di quattro genietti, mica cazzi… La scaletta è ben nutrita e ce n’è per tutti i gusti, i nostri non sprecano tempo, vogliono sfruttare l’ora a disposizione fino all’ultimo minuto (anzi, sforeranno anche leggermente), inserendo perfino una cover, quella “Baba O’Reilly” che non penso abbia bisogno di presentazioni… E anche durante i rispettivi ed immancabili assoli, prendono il tutto con allegria cercando di coinvolgere il pubblico, e questa è una cosa che solo i grandi riescono a fare. Un unico appunto: qualcuno dica a Gilbert di togliersi quei cuffioni dalla testa, non lo si può proprio vedere :D (Roberto Alfieri)
SETLIST:
Daddy, brother, lover, little boy
Green-Tinted Sixties Mind
Undertow
American Beauty
Alive And Kickin’
Road to Ruin
Shy Boy (David Lee Roth cover)
Around the World
Take A Walk
Billy Sheehan solo
Paul Gilbert solo
Colorado Bulldog
Price You Gotta Pay
Encore:
Addicted To That Rush
Baba O’Riley (The Who cover)
MORGOTHLo ammetto, mi è dispiaciuto tantissimo dovermi allontanare dal concerto dei Mr. Big, ma, causa sovrapposizione, non potevo nella maniera più assoluta non assistere, almeno per una mezz’oretta, allo show dei Morgoth sul palco del Rock Hard Tent. Band di culto del panorama death metal europeo a cavallo tra ’80 e ’90, ho sempre adorato i tedeschi e quindi entrare sotto il tendone sulle note di “Travel” mi ha galvanizzato come pochi. Ancora più piacere mi ha fatto trovare la band in formissima, come se il tempo tra lo split e la recente reunion non fosse mai trascorso. Marc Grewe sembra un invasato, ha gli occhi assatanati (oltre che per le lentine verdi, ma vabbè), ma è tutta la band ad apparire ultra motivata. Se queste sono le premesse, non oso immaginare cosa possa uscir fuori da eventuali brani inediti. Anche perché il gruppo ha fortunatamente completamente tralasciato la seconda fase della sua carriera, quella alternative, tornando ad essere la putrida macchia death metal che piace tanto a noi. Compatti, immediati e di poche parole, i nostri ci danno dentro senza sosta annichilendoci con “White gallery”, la già citata “Travel”, “Body count”, aiutati, tra l’altro, da dei suoni perfetti e di una potenza inaudita, che hanno partecipato alla riuscita finale dello show, che, manco a dirlo, risulterà uno dei più intensi e riusciti di questa terza giornata, se non di tutto il festival in assoluto. Come nel caso dei Bolt Thrower, i Morgoth hanno fatto le cose in piccolo, accontentandosi del Rock Hard Tent, ma vi assicuro che è stato dieci volte più entusiasmante assistere al loro show tra poche migliaia di appassionati, e non in mezzo a decine di migliaia di persone che non li conoscono bene e non capiscono il vero spirito della loro proposta. (Roberto Alfieri)
GOATSNAKEGiusto il tempo di tributare gli ultimi applausi ai Grave che è già ora di cambiare palco, direzione Terrorizer Tent. Ad attendere ci sono infatti i doomster Goatsnake, che a giudicare dalla pienezza (una costante di questo Hellfest, tra l’altro) del palco erano attesi da molti. Ora, non posso certo definirmi un fan sfegatato del gruppo, che conosco veramente poco, ma il loro doom metal possente mi ha sempre affascinato: pur non conoscendo a menadito la loro discografia, il gruppo americano ha offerto una prestazione di tutto rispetto, anche grazie a suoni assolutamente perfetti che nonostante le accordature ribassate dei Nostri sono riusciti a valorizzarne il valore, non perdendosi mai in cacofonie assortite o pastoni incomprensibili. Sugli scudi il cantante Pete Stahl, una sorta di Ozzy Osbourne decisamente più intonato e dalle timbriche più calde, capace di far rendere al meglio brani come la supernota “Flower Of Disease”, “El Coyote” o “The Dealer”, mentre il resto del gruppo non ha perso un colpo che fosse uno. Riff lenti che puzzano di Black Sabbath, odore di zolfo, suoni grassi ed un andamento da funerale sono stati gli elementi distintivi di questo concerto che siamo certi i doomster ricorderanno a lungo dopo questo Hellfest. Rimane il rammarico per non aver potuto godere al 100% del concerto, più che altro per una conoscenza abbastanza limitata dei brani. Ma se può essere di conforto per la band, la loro esibizione sicuramente mi farà approfondire la loro produzione. (Michele “Coroner” Segata)
SETLIST:
Flower of Disease
Innocent
IV
Lord of Los Feliz
Trower
El Coyote
The Dealer
Mower
DOROIn un bill decisamente maschile, in cui le uniche ad essersi difese alla grande sono state le Crucified Barbara, tocca ora alla MetalQueen riportare le cose apposto. Doro sa perfettamente come gestire queste situazioni, è una frontwoman navigata, ha anni ed anni di esperienza alle spalle e sa esattamente cosa vuole il pubblico da lei: un concentrato di cliché metal, che saranno anche tanto datati e banali, ma che funzionano sempre dal vivo, dove una sorta di isterismo collettivo pervade la platea. Quindi, primo ingrediente: una manciata di brani che sono più che altro degli inni, e direi che ci siamo, visto che la bionda singer ha pescato a grandi mani dallo splendido repertorio dei Warlock, proponendo, tra gli altri, “I rule the ruins”, “Burning the witches”, “Metal races”, “Hellbound”, tutte cantate a squarciagola dal pubblico. Poi aggiungerei tanto cuoio e borchie: e ci siamo anche qui, date un’occhiata alle foto, direi impeccabile. E le cornina in cielo? Ce le vogliamo forse scordare? Direi di no, visto che Doro passa il 90% del tempo ad incitare i metal kids in platea proprio con il classico gesto… Beh, comunque, scherzi e battute a parte, lo show della biondona va avanti che è una bellezza, la band è valida, Doro è in formissima, i brani sono splendidi, e ci fanno passare una cinquantina di minuti in spensieratezza, facendoci godere al meglio questa mega festa che è l’Hellfest. Qualcuno potrebbe obiettare che ben sette brani su undici siano dei Warlock, ma tutto sommato chi se ne frega, l’importante è che il concerto vada avanti e fili tutto liscio, e così è infatti. Chi ha già assistito ad uno show della bella bionda sa, però, che non può ritenersi concluso finché le note dell’inno “All we are” non esplodono dalle casse, e ovviamente anche quest’oggi è proprio questo brano simbolo a mettere fine ad uno show genuino e simpatico, senza pretese, e lo fa come è giusto che sia, e cioè con l’intero pubblico che canta all’unisono il famosissimo coro (per un momento m’è sembrato quasi di stare in Germania, giuro, ehehe), con la singer visibilmente compiaciuta del successo ottenuto. Decisamente un ottimo antipasto prima dei due piatti forti della serata che stanno per essere serviti sul palco principale… (Roberto Alfieri)
SETLIST:
Intro
Earthshaker Rock (Warlock cover)
I Rule the Ruins (Warlock cover)
Burning the Witches (Warlock cover)
Running From The Devil
Night Of The Warlock
Metal Racer (Warlock cover)
Für Immer
True as Steel (Warlock cover)
Hellbound (Warlock cover)
Burn It Up
All We Are (Warlock cover)
JUDAS PRIESTCerto che la vita a volte è strana, piena di eventi che non ti aspetteresti mai. Non avrei mai pensato di poter assistere, prima o poi, ad uno show dei Judas Priest senza il biondo K.K. Dowing al suo posto sul palco… E invece ora sono qui, con loro davanti ai miei occhi, e sulla sinistra del palco c’è effettivamente un biondo, ma non è il buon vecchio K.K., è un tale Richie Faulkner, giovane di belle speranze che ha vinto il bingo della vita e s’è fatto assoldare come sostituto del chitarrista dei Judas Priest. Cose che, appunto, ti capitano una volta nella vita, quando hai culo e ti capitano. Senza entrare nel merito della questione, degli annunci fatti e ritirati, del fatto che da lontano sembra davvero un suo clone (usa perfino le stesse chitarre), ma entrando subito nel tecnico della questione, a me non è piaciuto manco un po’. Se nulla gli si può eccepire in quanto a tecnica e faccia di bronzo, è proprio quest’eccedenza che cozza con tutto. Puoi anche fare scale a duemila allora o correre da una parte all’altra del palco, non riuscirai mai a sortire lo stesso effetto delle sue poche ma buone note o del suo essere quasi immobile ma riuscire comunque a catalizzare l’attenzione. Queste sono doti che soltanto in grandi hanno, e, mi dispiace per te buon Richie, tu di strada devi farne ancora a km e km… Chiusa questa doverosa ma inevitabile parentesi sul nuovo arrivato, veniamo a noi… I tizi dell’Hellfest hanno deciso di voler proprio chiudere in grande l’edizione del 2011, così non paghi di un headliner di eccezione come il buon zio Ozzy, hanno deciso di affiancargli un co-headliner mica da poco, chiamando, appunto, i Judas Priest. Ultimo tour? Non ultimo tour? Ancora non si è capito, come al solito, quindi noi nel dubbio ci godiamo, ancora una volta, il loro splendido heavy metal di classe per un’oretta e mezza, scoprendo, via facendo, che i nostri c’hanno perfino riservato qualche chicca niente male nella scaletta. L’inizio è altisonante, addirittura affidato a “Rapid fire”, seguita a ruota da “Metal Gods”, e la band è davvero in gran spolvero, anche il buon Halford, che, per quanto non sia più l’ugola d’oro di un tempo, si difende più che bene sfoderando, dal punto di vista prettamente vocale, una performance di tutto rispetto. Un po’ meno convincente risulterà dal punto di vista scenico, troppo statico e lento nei movimenti, quasi affaticato, ma voglio dire, ha pur sempre 60 anni, cosa pretendete ancora? Vi parlavo di alcune chicche… Beh, non trovo altri modi per definire brani storici assenti da anni ed anni dalle scalette, se non addirittura mai proposti live, come “Starbreaker”, la mitica “Never satisfied”, “Beyond the realms of death”… vi giuro che mi sono emozionato e non poco nel sentirle per la prima volta dal vivo… Tipton è come sempre impeccabile, sciorina assoli uno più bello dell’altro, Travis è una sicurezza, preciso e potente, Hill è tanto assente scenicamente quanto presente come suono, e del nuovo arrivo ho già detto: imparasse, visto che ha la fortuna di suonarci assieme, dai suoi compagni d’avventura, l’arte del giusto. Halford a volte è quasi al limite, ma da gran volpone qual è ovviamente non stecca manco a pagarlo, perfino su pezzi più impegnativi come”Victim of changes” o “Painkiller”. Purtroppo il tempo a disposizione è di una mezz’oretta più breve rispetto a quando suoneranno da headliner, il che significa l’inevitabile esclusione di altre chicche, ma per questa sera ci accontentiamo così, anche perché siamo felici di aver trovato la band ancora in gran spolvero, ancora lì sul gradino più alto dell’olimpo, esattamente al suo posto e dove è giusto che sia. Ma che concerto dei Priest è senza l’immancabile ingresso di Halford a bordo della sua Harley sulle note di “Hell bent for leather”? Ed infatti eccolo il rombo, ed eccolo il singer, fare il suo ingresso trionfale tra la folla estasiata, prima che “You’ve got another thing coming” ponga fine ad uno show che solo i grandi possono mettere su. Abbandoneranno? Non abbandoneranno? Al di là di aver rallentato un po’ tutti i brani, ma questo lo facevano già da anni, io non trovo assolutamente motivo affinché lo facciano. THE PRIEST IS BACK, LONG LIVE THE PRIEST… (Roberto Alfieri)
SETLIST:
Rapid Fire
Metal Gods
Judas Rising
Starbreaker
Victim of Changes
Never Satisfied
Night Crawler
Beyond the Realms of Death
Blood Red Skies
The Green Manalishi (With the Two-Pronged Crown) (Fleetwood Mac cover)
Breaking the Law
Painkiller
Encore:
Hell Bent for Leather
You’ve Got Another Thing Comin’
ELECTRIC WIZARDNonostante siano un gruppo sostanzialmente di nicchia, gli Electric Wizard sono ormai una band culto, molto conosciuta, amata e rispettata da chiunque ascolti un certo tipo di sonorità. Che la loro esibizione fosse attesa da molti quindi è facilmente intuibile, e ancora una volta la Terrorizer Tent è stracolma di gente lasciandomi nuovamente ai margini del tendone. Fortunatamente però l’ottima resa sonora ha fatto in modo che l’esibizione degli inglesi potesse essere seguita anche a notevole distanza in maniera più che distinta, e che le immagini proiettate alle spalle della band potessero essere viste con non troppa difficoltà (che ci volete fare, sono sempre meno di 1.70 cm…). La band attacca con “Satanic Rites Of Drugula” e subito è evidente come questo concerto sarà da tramandare ai posteri: suoni paurosi, band in palla, riff possenti, lenti ed ipnotici e sullo sfondo filmati risalenti agli anni Settanta estratti con tutta probabilità dai peggiori film pornografici di serie B, tra orge, bondage, riti satanici e qualche scena saffica. La voce acida e stridula di Oborn poi non perde nulla dal vivo, risultando estraniante anche in sede live e non solamente su disco. Uno spettacolo appagante sia per gli occhi sia per le orecchie. Con “Nightchild” il gruppo fronteggiato da Jus Oborn omaggia l’ultimo album “Black Mass”, ben accompagnato e sostenuto dal calore del pubblico presente, che in larga misura ha pensato di accompagnare l’esibizione del combo inglese con una bella cannetta! Dopo l’ottima “The Chosen Few” il Mago spara un poker da infarto, un quartetto di canzoni che oserei dire contengono l’essenza stessa del gruppo: parlo di “Return Trip”-“Dopethrone”-“Funeralopolis” (basta accennare al riff portante che tutti impazziscono!) e la conclusiva “Witchcult Today”, che mandano in visibilio il pubblico presente sotto la Terrorizer Tent. Sebbene la proposta non sia orecchiabile e le canzoni siano mediamente molto lunghe, la band ha imbastito una performance pesante, potente e sulfurea che ha riscosso parecchio consenso, dando l’impressione che quello degli Electric Wizard sia stato uno degli highlight di questo Hellfest. Nessuno spazio per la noia, ma solo il rammarico che il tempo a disposizione degli inglesi sia volato via così dannatamente in fretta. Sicuramente da rivedere in veste di headliner con più tempo a disposizione. OUR WITCHCULT GROWS... (Michele “Coroner” Segata)
SETLIST:
Satanic Rites of Drugula
The Nightchild
The Chosen Few
Return Trip
Dopethrone
Funeralopolis
Witchcult Today
OZZY OSBOURNEDopo aver assistito allo “spettacolo” del Madman a Milano nel 2009, confesso che la voglia di rivedere Ozzy in azione sulle assi del Main Stage 01 è prossima allo zero. In attesa di seguire il concerto degli Opeth, che di fatto sancirà la chiusura del festival, mi piazzo quindi sul palco adiacente da cui inizio a seguire un po’ scettico il concerto del Principe Delle Tenebre. L’inizio è da infarto con il classicone “I Don’t Know”, sulle cui note il pubblico inizia a scaldarsi notevolmente e fa sentire il proprio calore e la propria partecipazione, a cui segue un altro pezzo da novanta come “Suicide Solution” e l’immortale “Mr. Crowley”. Se i primi brani fanno presagire che il concerto sarà memorabile, contro ogni pronostico anche la prestazione del buon Ozzy lascia ben sperare per la serata: come sempre indomito sul palco, anche se dalle movenze un po’ goffe, il buon Madman infatti sfodera una prestazione vocale di tutto rispetto, facendosi così perdonare la disastrosa esibizione di qualche anno fa al nostrano Gods Of Metal. Non che la sua voce sia mai stata particolarmente aggraziata nel corso della sua carriera, ma perlomeno questa sera Ozzy ha fornito un’ottima prova non pregiudicando così l’ottimo lavoro della sua band, tra cui spicca senza dubbio il buon Gus G.. Il sostituto di Zakk Wylde si è infatti fatto valere, non facendo rimpiangere il suo illustre predecessore, forse anche perché come stile chitarristico (dominato spesso da armonici lancinanti) i due musicisti non sono poi così dissimili. Ozzy si conferma quindi un talent scout dal grande fiuto per i chitarristi, ed in questo caso anche un discreto paraculo eheh! Il concerto avanza e nella setlist trovano spazio i maggiori successi che hanno costellato la pluridecennale carriera di Ozzy, come “Bark At The Moon”, “Crazy Train”, “Mama, I’m Coming Home”, “Road To Nowhere” o “I Don’t Want To Change The World”, oltre a qualche classico targato Black Sabbath come “War Pigs”, “Iron Man”, “Fairies Wear Boots” e la conclusiva “Paranoid”, cantata a memoria da più o meno tutti i presenti che non hanno certo maldigerito queste incursioni nel repertorio Sabbathiano. Al termine di “Rat Salad” Gus G. ha persino dato sfoggio della propria bravura con un assolo certo evitabile quanto studiato appositamente per mettere in mostra le doti chitarristiche del Nostro, ma che per fortuna non ha esagerato con i tempi. Il tempo passa in fretta ed ecco che anche la setlist di Ozzy giunge al termine, lasciandomi l’impressione che il buon Madman nonostante gli eccessi di una vita e l’età che avanza sia sempre qua, inossidabile. Certo, con il procedere del concerto qualche stecca è partita, ma fa parte dello show e di certo non ha inficiato la godibilità dello spettacolo, che mi ha piacevolmente sorpreso. (Michele “Coroner” Segata)
SETLIST:
I Don't Know
Suicide Solution
Mr. Crowley
Bark at the Moon
War Pigs (Black Sabbath song)
Road to Nowhere
Shot in the Dark
Rat Salad (Black Sabbath song) (with guitar and drum solos)
Iron Man (Black Sabbath song)
Fairies Wear Boots (Black Sabbath song)
I Don't Want to Change the World
Crazy Train
Encore:
Mama, I'm Coming Home
Paranoid (Black Sabbath song)
OPETHL’ora è tarda, le energie sono state dissipate nell’arco dei tre giorni e la prospettiva del viaggio di ritorno di certo non migliora la situazione, ma rimane un ultimo gruppo da vedere: il compito di chiudere la kermesse dell’Hellfest spetta dunque agli Opeth di Mikael Akerfeldt, decisamente tra gli acts più attesi. Per dovere di cronaca, il sottoscritto adora la produzione del gruppo svedese fino a “Blackwater Park” mentre i dischi editi successivamente non mi hanno mai comunicato troppo, anche per via di un progressivo e inarrestabile ammorbidimento della proposta della band, che ha via via accantonato la sua componente più death metal a favore di quella progressivo/acustica. Detto questo, visto il non troppo tempo a disposizione degli Opeth e vista la particolare cornice, mi sarei aspettato una scaletta che presentasse un po’ il meglio della produzione, soprattutto i brani più death e incazzosi che a mio avviso sono anche quelli più adatti ad un evento come un festival open air. Al contrario, gli Opeth hanno proposto una scaletta incentrata su tutti i lavori più recenti e al repertorio più soft, scelta non condivisa dal sottoscritto ma evidentemente ben accolta dal resto dei presenti, che non hanno mai cessato di sostenere la band. Per quel che mi riguarda, gli unici veri highlight del concerto sono stati “Face Of Melinda” e “The Drapery Falls”, che secondo il mio modesto parere demoliscono letteralmente tutto il resto della setlist. Dal canto suo, gli Opeth sono stati impeccabili nella riproposizione di pezzi come “The Grand Conjuration”, “In My Time Of Need”, “Master’s Apprentice” o “Hex Omega”, così come Akerfeldt è stato il maggior catalizzatore delle attenzioni del pubblico (soprattutto la falange femminile), sfoderando come di consueto il suo umorismo (perlopiù abbastanza fiacco stasera, ma comunque hanno riso tutti…). Se però il suo cantato nei pezzi puliti è stato davvero eccezionale, lo stesso non si può purtroppo dire del suo growl, ormai spento e privo del timbro cavernoso che negli anni gli ha permesso di essere definito una delle voci più belle in campo death metal. Come già appurato dal DVD dei Bloodbath e dai recenti video, Akerfeldt appunto sembra aver smarrito la forma e forse c’è anche questo dietro la scelta di abbandonare le vocals sporche nel nuovo album. In ogni caso il pubblico pare non aver fatto troppo caso a questo ed ha apprezzato molto la scaletta, a dimostrazione che gli Opeth hanno una fan base solida e molto vasta. Dal mio punto di vista ho avuto la conferma che gli Opeth dal vivo mi risultano soporiferi (la prima volta fu nel 2006, quando mi addormentai al Gods Of Metal durante la loro esibizione), e anche all’Hellfest Morfeo mi ha quasi braccato, se non fosse stato che ero in piedi ed in prima fila. Al di là di queste considerazioni personali, va dato merito al gruppo di aver proposto uno spettacolo professionale che ha riscosso parecchio successo tra i pubblico. Grande assente di questa sera è “Demon Of The Fall”, solitamente posta in chiusura, a cui è stata preferita “Hex Omega”. Con lo show degli Opeth si conclude così l’edizione 2011 dell’Hellfest... (Michele “Coroner” Segata)
SETLIST:
The Grand Conjuration
Face of Melinda
The Lotus Eater
In My Time Of Need
Master’s Apprentices
The Drapery Falls
Hex Omega
CRADLE OF FILTHVolete davvero sapere com’è andata la storia? Beh, gli Opeth attaccano a suonare alle 2 di notte, dopo gli ottimi e adrenalinici show di Judas e Ozzy. L’ora è tarda, i tre giorni di festival si fanno sentire TUTTI, e come se non bastasse gli svedesi decidono di essere più soporiferi del solito. A una certa la pompa non mi ha retto proprio più, e nonostante le buone intenzioni, onde evitare di addormentarmi in piedi e farmi ritrovare ibernato la mattina dopo, decido di abbandonare il Main Stage 02 in cerca di un’ultima scossa. Non so perché, ma mi frulla nella mente di andare a vedere cosa stesse combinando Dani Filth sul palco del Rock Hard Tent. Beh, non me ne vogliano i suoi fans, ma la situazione che mi sono ritrovato davanti è stata esilarante… probabilmente perché nel frattempo stavano suonando Opeth e Kyuss Live!, probabilmente perché ormai non se li incula più nessuno, ma quando arrivo sotto il tendone trovo in assoluto la minor gente di questi tre giorni di festival. Qualche centinaio di persone infreddolite assistevano allo show degli inglesi, con la band impegnata come sempre a non far capire una nota di ciò che stava suonando, visto il pastone informe di suono che stava producendo, e il nano malefico impegnato come sempre a dilaniare microfoni e padiglioni auricolari con le sue urla beduine. Ma stavolta c’è qualcosa in più… il buon Dani stavolta è incazzato come una iena, e si nota lontano un miglio. Evidentemente la situazione non la sta proprio mandando giù, e se la prende con chiunque abbia la sventura di incrociare la sua persona. A questo punto è davvero troppo. Dagli Opeth non torno, rischierei il collasso istantaneo, dai Kyuss non vado, c’è gente in ogni dove ed è impossibile andare. L’ora è tarda, le forze mi stanno dicendo ciao, e c’è ancora un estenuante viaggio di ritorno da affrontare. Decido di scollegare il cervello, mettere da parte i miei panni di scribacchino di Metal.it, di riporre quindi macchina fotografica e taccuino, e tornare ad essere un civile, brancolando un po’ per l’arena per assaporare gli ultimi attimi di festival. L’edizione 2011 dellHellfest per me ha termine qui… Buonanotte… (Roberto Alfieri)
KYUSS LIVE!E così dopo la triade da infarto Goatsnake/Judas Priest/Ozzy, si giunge all’ultimo concerto del festival che, con il senno di poi, per il sottoscritto, insieme ad Iggy and The Stooges e Monster Magnet è stato il momento più alto dei tre giorni: i Kyuss Live! Poco importa se alla chitarra non c’è Josh Homme, la loro prestazione è stata qualcosa di davvero indimenticabile. Si parte con “Gardenia” per poi continuare con una serie di classici a raffica estratti tutti da “Blues for the Red Sun” e “Welcome to Sky Valley” e suonati in maniera eccelsa. Garcia è in formissima e sciorina una prestazione da urlo, così come Nick Oliveri al basso (dal suono più potente che mai) e Brant Byork dietro le pelli. Il Terrorizer Tent è completamente estasiato ed è talmente gremito che la gente arriva fino a fuori, nonostante in contemporanea suonino Cradle of Filth e Opeth. Le emozioni fioccano e scorrono velocemente sulle note, facendo arrivare l’adrenalina del tendone a 2000. I Kyuss hanno la meglio anche sulla stanchezza dei presenti che, dopo tre giornate veramente intense, continuano a cantare, saltare e a chiedere altri bis nonostante si sia già sforato di un quarto d’ora. I quattro cowboy in quel di Clisson ci hanno ricordato, se mai ce ne fosse bisogno, perché sono stati una delle formazioni più importanti degli anni ‘90, e il ricordo di questo show resterà indelebile nella memoria degli stoner-rockers qui presenti, soprattutto in quella di chi, come me, non ha avuto la fortuna di vederli nei 90’s. (Nico Irace)
SETLIST:
Gardenia
Hurricane
Thumb
One Inch Man
Freedom Run
Asteroid
Supa Scoopa and Mighty Scoop
Molten Universe
Whitewater
El Rodeo
100°
Encore:
Odyssey
Green Machine
CONCLUSIONI:
Come giudicare nel complesso l’esperienza di questo Hellfest? Al di là del bill, il cui valore è abbastanza soggettivo ma che nel mio caso merita una decisa promozione, due parole vanno spese circa l’organizzazione del festival: avendo presenziato sia a festival italiani che al Wacken Open Air, la kermesse francese ha mostrato una capacità organizzativa decisamente superiore ai primi ma senza raggiungere l’eccellenza del secondo. La zona campeggio è stata allestita nei campi circostanti, i cui filari si sono presto trasformati in una latrina a cielo aperto. I bagni chimici infatti posti nelle vicinanze delle tende, oltre a presentare delle inevitabili file, si sono inzozzati molto presto e la concausa di questi due fattori ha ben presto fatto virare verso soluzioni “all’aria aperta”, soprattutto tra i maschietti (ma non solo). Nell’area concerti la situazione si è fatta più vivibile, anche se comunque la maggior parte dei presenti ha preferito i metodi fai da te anziché servirsi dei pisciatoi messi a disposizione dallo staff. Discorso diverso per quel che riguarda le signorine, che hanno preferito usare i bagni chimici presenti, abbastanza numerosi, pur dovendo fare talvolta delle discrete file e non trovandoli sempre in condizioni ottimali, anche se decisamente migliori dei “fratelli” in area camping. Molto positiva la scelta di piazzare vicino ai pisciatoi dei lavandini con acqua corrente potabile e gratuita.
Per quel che riguarda il cibo, numerosi gli stand culinari presso cui rifocillarsi, tra panini assortiti (kebab con patatine, hot dog, panini con carne argentina), cucine etniche (messicana, italiana, cinese) e perfino uno stand dedicato ai vegetariani. Presenti anche un punto vendita dolciumi (!!) e frutta. In generale i prezzi si aggirano sui 5-6 euro per le varie cibarie, costo non proprio basso ma che se considerato in relazione alla quantità ed alla buona qualità del cibo ci può anche stare. Capitolo bevande: contrariamente al cibo, sono acquistabili solamente tramite gettoni da acquistare presso i relativi punti di cambio, che a dire la verità erano forse pochi (uno in zona campeggio e uno in area concerti). Inevitabile quindi il crearsi di code nelle ore più affollate, che nel complesso comunque sono state smaltite in tempi umani. Molto stilosi i bicchieri, tuttavia disponibili in una sola “taglia” della scarsa capienza di 25cl. In generale un bicchiere di birra o di Colà... ehm... Coca Cola costa 2 euro, praticamente come comprarla al bar. Decisamente più allettante la caraffa da 1,5 litri da portarsi appresso e da condividere con gli amici (oddio, il più delle volte si prende per godersela in solitaria) e del costo di 12 euro. Peccato non sia stata adottata la politica del vuoto a rendere, che certamente avrebbe fatto risparmiare rifiuti: infatti portando il bicchiere al banco per un refill, questo viene semplicemente ritirato e lavato. Conseguenza: le caraffe al terzo giorno erano finite (io ne ho prese un paio come souvenir :D) ed anche il tempo per lavare i bicchieri non era sufficiente per soddisfare le richieste dei metallari assetati. Inconveniente risolto dando la birra in bicchieri di plastica DENTRO quelli dell’Hellfest! Se nella zona concerti è disponibile una sola tipologia di birra (tranne un banco apposito che si occupa di servire vino, cocktail e Guinness), in area camping sono invece disponibili diverse marche e vari tipi di birra, per soddisfare i gusti anche dei clienti più esigenti.
Immancabile poi il Metal Market, dove decine di stand offrono magliette, cd, vinili, felpe e chi più ne ha più ne metta, vera e propria minaccia per i portafogli. Molto ben organizzati anche i meet & greet con i vari artisti, con orari chiari, precisi e rispettati (tranne qualche raro caso, vedi Opeth che non si sono presentati) anche se spesso per fare una foto o farsi fare un autografo (con carta intestata Hellfest fornita dallo staff al momento fatidico) è necessario piazzarsi in coda per anche un’ora... ma cosa non si fa per i nostri beniamini! Non avrebbero guastato invece un paio di sportelli bancomat da cui prelevare denaro in più, due sono decisamente insufficienti e per accedervi le code sono state molto lunghe, facendo perdere tempo prezioso per seguire gli interessanti concerti. Nota di demerito invece per lo staff che ha servito ai veri stand del cibo e delle bevande: non è ammissibile che in un festival di tale caratura e che ha rilevanza INTERNAZIONALE la gente non parli inglese! Il 99% delle volte, quando ho ordinato qualcosa da mangiare o da bere in inglese, mi è stato risposto in francese, e quindi per farmi capire ho dovuto gesticolare da buon italiano. Se non altro è stato divertente prendere un po’ per il culo gli ignari volontari ordinando in romanesco o francesizzando le parole a caso. Quel che è sicuro è che in un festival del genere chiunque ci lavori deve saper almeno dire “acqua”, “birra”, “panino” in inglese...
In generale, pollice alto per questo festival, nonostante raggiungere Clisson sia stato molto simile a un Odissea: ci mancava solo il risciò ed il gommone che tra auto, aereo, treno, metropolitana e pullman avevo preso tutti i possibili mezzi di trasporto! Ma per la nostra amata musica questo ed altro! (Michele “Coroner” Segata)
Non ho granché da aggiungere. Qualcosa l’ho già scritta all’inizio di questo triplice articolone, per il resto c’ha pensato il buon Cory a delineare fin nei minimi dettagli la situazione. Solo due considerazioni e qualche ringraziamento… La prima considerazione è che se fossero stati presenti anche Gamma Ray e Slayer, penso che questo sarebbe diventato in assoluto il festival della mia vita. La seconda è che NO, non mi è affatto passato l’odio per i francesi di cui vi parlavo, e le spiegazioni di Michele penso che possano farvi intuire il perché. Ciononostante, ci tengo comunque a ringraziare i ragazzi e le ragazze della security che controllavano gli ingressi photo sotto i quattro palchi, davvero gentili e disponibili. Poi volevo ringraziare lo staff dell’Area Vip, dove noi privilegiati potevamo stravaccarci un po’ per riprendere fiato e bere qualcosa in tranquillità. Poi volevo ringraziare il buon Grazioli, che ha permesso a me e Coroner di potere alti i colori della Gloria di Metal.it anche in questo buco di culo di paese che è Clisson. E infine volevo ringraziare me, che mi sono regalato quest’altra bella esperienza. Ci si vede in giro sotto i palchi, da qualche parte nel mondo… (Roberto Alfieri)
Foto a cura di Roberto Alfieri