Il
Frontiers Rock Festival è innanzi tutto una festa, una specie di “
Natale fuori stagione” (come sostiene il mitico
Pierpaolo “Zorro” Monti, che ho avuto finalmente l’occasione di incontrare “de visu” … a proposito, attenzione ai Raintimes, il suo nuovo progetto artistico … “qualcosa” mi dice che ne sentiremo delle belle!) in cui gli appassionati del
rock melodico si ritrovano, si “sfidano” a colpi d’inconsuete
t-shirt “a tema” (favolosa quella dei Touch, sfoggiata da un corpulento astante …) e poi si confrontano, comprano (basta vedere com'è preso d’assalto il ricco banchetto riservato alla vendita di
Cd e
merchandising …) e ascoltano un sacco di musica raffinata, grintosa e “adulta”, una “roba” immarcescibile, che oggi è tornata maggiormente in auge, ma che anche nei tempi più “bui” ha saputo sopravvivere a ogni
trend e alle censure dei suoi molti (spesso privi di ogni cognizione di causa, tra l’altro …) denigratori.
Non mi soffermerò a ribadire quanto personalmente sia orgoglioso che l’etichetta di riferimento del genere sia italiana (consentendo a chi per anni ha dovuto subire gli sbeffeggiamenti di tanta critica straniera di sentirsi parte di un’appagante forma di rivalsa, ecc. … un “pippone” che, però, rappresenta appieno i sentimenti dei
melomani della mia generazione …), mentre mi preme invece sottolineare il valore che per l’intero “movimento” ha un evento come questo, il quale merita di essere sostenuto “a prescindere” (tanto per citare un “altro” celebre partenopeo!), indipendentemente da ogni altra considerazione.
Ciò detto, prima di affrontare brevemente la cronaca del concerto (purtroppo relativa solo alla prima giornata, a causa delle solite “sfighe” del vivere quotidiano che sembrano concentrarsi nei momenti meno opportuni …), lasciatemi cogliere l’occasione per ringraziare la
Frontiers Music per l’impeccabile e gioiosa organizzazione e i seicento / settecento
chic-rockers oggi convenuti qui al
Live Club di Trezzo sull'Adda …
don’ t stop believin’, guys!
No Hot Ashes.Sarò (come sempre,
eh …) sincero … non conoscevo per nulla i
No Hot Ashes, tanto da immaginare, prima di erudirmi tramite le loro eloquenti note biografiche, di avere a che fare con un gruppo “nuovo”.
Beh, a vederli sul palco, in effetti, tanto “nuovi” non sembrano, ed è comunque un piacere scoprire che il ritorno d’interesse di certe sonorità e la competenza della
label napoletana hanno permesso a una
band di navigati musicisti di cogliere quell’occasione attesa da troppi anni (avrebbero dovuto esordire negli
eighties, con il patrocinio discografico della GWR, storica etichetta di Motorhead, Girlschool, …). I
rockers nordirlandesi dimostrano che l’esperienza è un importantissimo valore aggiunto e che il loro approccio alla “materia”, dalle sfumature tipicamente
british (FM, Heartland, Virginia Wolf, …) avrebbe meritato fortune maggiori. “
Glow”, “
Boulders”, le scorie funky di “
Satisfied” e “
Little Johnny redhead” (dedicata al figlio del cantante
Eamon) attestano le qualità tecnico-compositive della formazione britannica e alimentano la curiosità per un albo d’imminente pubblicazione.
Shiraz Lane.Gli
Shiraz Lane sono invece, a tutti gli effetti, un gruppo “nuovo” e le loro facce da “monelli” e l’energia incontenibile che profondono sul palco, trasmettono istantaneamente l’esuberante voglia di “spaccare tutto” di una formazione che desidera dimostrare il suo valore e manifestare al pubblico le ragioni che hanno indotto una
label prestigiosa come la
Frontiers a sostenerli nel loro debutto discografico sulla lunga distanza “
For crying out loud”.
Tanta energia e pure parecchia acerbità, invero, per una
band cresciuta a “
ruisreikäleipä e street metal” (soprattutto americano … Skid Row, L.A. Guns, Motley Crue, Guns n' Roses …) e che però, oltre a non essere ancora all’altezza dei suoi titanici numi tutelari, non mi sembra ancora pienamente “pronta” ad affrontare adeguatamente la sfida della scena
rock n’ rollistica contemporanea.
Nonostante alcuni piccoli eccessi “ispirativi” e qualche problema tecnico, la prova dei finlandesi si è rivelata complessivamente abbastanza coinvolgente, con brani come “
Momma’s boy”, l’eccellente “
House of cards”, “
Begging for Mercy” (accenno a “
No woman no cry” compreso …), “
Mental slavery” (eseguita dallo
screamer Kett fasciato da una “ovvia” camicia di forza …) e la notturna “
Behind the 8-ball” (con barlumi di Metallica e, su suggerimento di
Ermo, D.A.D.) che hanno il “tiro” e la tensione espressiva necessaria a produrre una dose più che dignitosa di “buone vibrazioni”.
Sorvolando su una “
Same ol blues” un po’ anonima e disarmonica sotto il profilo canoro (“terribili” le
backing vocals del bassista), da segnalare la rocambolesca discesa del gruppo tra il pubblico durante la conclusiva “
Out there somewhere” (una traccia gradevole, tratta dal singolo d’esordio assoluto dei nostri e non inclusa nel
full-length del 2016) … un’ultima notazione, da indirizzare a un debordante
Hannes … caro
Kett, hai sicuramente degli ottimi polmoni, ma perché non cercare di variare maggiormente la gamma interpretativa?
Find Me.Ed eccola la prima “vera” scossa emotiva della giornata …
Robbie LaBlanc e i suoi
Find Me salgono sul palco e sul pubblico del
FRF III è come se calasse un prezioso drappo fatto di eleganza e classe, affine a quelle che hanno reso Giant, Stan Bush, Survivor e Loverboy autentici monumenti del settore.
Lo stesso cantante e chitarrista statunitense appare visibilmente commosso e questo suo “trasporto” rende ancora più intenso l’effetto sensoriale cagionato da gioiellini di palpitante forza espressiva denominati “
Nowhere to hide”, “
Did you feel any love”, “
Where do I go”, “
Road to nowhere”, e quando arriva la sofisticata ruffianeria di “
Midnight memories”, l’operazione “soggiogamento” può dirsi assolutamente completata.
Magnetico pur nella sua disarmante semplicità (con l’unico “vezzo” di un leggio su cui è posto un
tablet da utilizzare come “gobbo”!),
Robbie pilota da consumato “condottiero” il suo impeccabile gruppo di sodali dritto verso il centro nevralgico dei sensi e dimostra di possedere una naturalezza e una fibra artistica davvero “
Unbreakable”, almeno quanto quello stile musicale di cui è ormai da parecchio tempo uno splendido interprete.
Così, se “
I’m free” (
remake di un pezzo di
Kenny Loggins contenuto nella colonna sonora di “
Footloose”) è un gioioso tuffo negli edonistici anni ottanta, il ripescaggio della storica “
It’s a little too late”, eseguita in versione acustica, schiude le porte a un momento indimenticabile di pura magia in note, a cui fa seguito una frizzante versione di “
Let love rule”, ariosa, spigliata e talmente contagiosa da far “impallidire” qualunque propugnatore della grande tradizione melodica
yankee. Tutto bellissimo …
The Treatment.Cosa ci si aspetta da un gruppo musicale che ostenta tra i suoi inequivocabili modelli gente come AC/DC, Aerosmith e Led Zeppelin? Che offra una deflagrante prestazione gravida di attitudine ed energia, elementi in grado di supplire a una “dipendenza” così diffusa ed evidente. Ebbene, i
The Treatment (con le
new entries Mitchel Emms e
Tao Grey) di “
Generation me” (disco che ha inaugurato la collaborazione con la
Frontiers) non sono riusciti a convincermi pienamente ed è per questo che ero molto curioso di verificare se anche loro soffrissero della celebre “sindrome” degli Airbourne, una formazione tanto “normale” in studio quanto esaltante dal vivo.
Beh, diciamo che lo
show dei britannici è stato abbastanza soddisfacente e che, come previsto, la loro convenzionale mistura di viscerali
mid-tempos e
refrain catalizzanti in un contesto
live è riuscita ad acquisire una dose significativa d’indispensabile
grip emozionale, trasmesso da musicisti preparati, appassionati e decisamente motivati. Niente di particolarmente “straordinario”, tuttavia … nulla, insomma, che vada oltre una discreta piacevolezza complessiva o che possa assegnare alla
band inglese l’ambito
status di “
animale da palco”.
Tra adrenaliniche digressioni soniche di composizione recente (“
The devil”, “
Tell us the truth”, l’ottima “
Cry tough”) e scansioni ad alto voltaggio più rodate (l’irresistibile “
The doctor”, “
Running with the dogs” e “
Shake the mountain”, eseguita con l’ausilio di un simpatico copricapo “cornuto” …), l’oretta a disposizione del quintetto di Cambridge scorre senza soverchi affanni, ma quando termina, non lascia moltissimo nella memoria e nei sensi degli astanti. Manca ancora qualcosa … comunque, bravi(ni).
Drive, She Said.Sono veramente in grande difficoltà. Come valutare la prestazione dei
Drive, She Said? E’ più intensa l’emozione garantita dalla (lungamente attesa) possibilità di vedere dal vivo uno dei propri miti musicali o la mestizia provata nel costatare che i tempi d’oro della
band sono, con tutta probabilità, irrimediabilmente andati? Non è facile essere obiettivi e tuttavia il mio “ruolo” m’impone di accantonare, per quanto possibile, le sensazioni dovute a un “sogno che è diventato realtà” (parafrasando il titolo del
greatest hits “
Dreams will come”) e ammettere che la freddezza di
Mark Mangold e gli evidenti limiti attuali di
Al Fritsch non hanno per nulla reso giustizia a una delle leggende dell’
AOR yankee a ventiquattro carati. In particolare, a far “penare” è l’oggettiva impossibilità del cantante nell’offrire una prestazione all’altezza della sua “storia”, con quel continuo arrancare nel tentativo di riprodurre linee vocali ormai evidentemente impraticabili. Se nel nuovo lavoro della
band, “
Pedal to the metal”, si era riuscito a “mascherare” un pochino tali affanni, in questa circostanza, vuoi anche per qualche verosimile problematica tecnica (l’impressione è che le “spie” di palco non funzionassero a dovere), essi si manifestano in tutta la loro “drammatica” consistenza, procurando una notevole afflizione in chi, come il sottoscritto, adorava il timbro virile e vigoroso del
vocalist (e multistrumentista) americano.
Dopo l’analisi oggettiva, arriva, poi, l’aspetto squisitamente emotivo della questione, e allora è necessario rilevare la buona qualità dei brani tratti dal disco da poco nei negozi (la
title-track, “
In R blood”, “
Touch”), il piccolo “turbamento” provato alla comparsa sul palco dell’elegantissima
Fiona (per il duetto nella ballata
ottantiana “
In your arms”, sempre tratta dall’albo del 2016) e, soprattutto, l’autentica scossa sensoriale garantita da “
Hard to hold”, “
Maybe it’s love”, dalla Purple-
iana “
Drivin’ wheel” e, sopra tutto, dall’immortale “
Don’t you know” (rilettura della “
Don’t you know what love is” dei Touch …), una delle dimostrazioni più lampanti del genio melodico di
Mangold. Alla fine in bocca rimane un sapore agrodolce, ma come si dice “
meglio amare e soffrire che non aver mai amato” ed io a questi
Drive, She Said, specialmente per quello che hanno saputo darmi in passato, sono ancora molto affezionato.
Treat.I
Treat sono tra i principali interpreti della scuola melodica scandinava, eppure, complice anche l’esplosione planetaria degli eterni “rivali” Europe, non hanno mai ottenuto quel riconoscimento che spettava loro di diritto.
La
reunion e la pubblicazione nel 2010 del potente “
Coup de grace” hanno riportato all’attenzione del pubblico la loro invincibile miscela di incisivi
mid-tempos, cori di grande presa emotiva e atmosfere magniloquenti, in un contesto che anche nei momenti romantici non eccede mai nel languore sentimentale.
La
performance degli svedesi alla terza edizione del
FRF è fin “troppo” perfetta (con una profusione di basi pre-registrate …) e tuttavia restituisce intatta l’eccellenza di un gruppo che anche con il nuovo “
Ghost of graceland” riesce a conquistare i
fans, proponendo una versione leggermente “aggiornata” del suo consolidato
trademark.
E’ proprio la
title-track dell’ultimo
studio album della
band ad aprire le “danze”, e il suo clima melodrammatico, allestito attorno ad un
refrain incredibilmente adescante, conferma che i
Treat non hanno perso una stilla della loro ben nota abilità compositiva ed esecutiva. La voce di
Ernlund (a volte dagli accenni abbastanza
Tempest-iani) è ammaliante e tuttavia non priva di mordente, la chitarra di
Wikström freme e graffia, le tastiere (affidate nell’occasione a
Jona Tee degli H.E.A.T .) tutelano sia gli aspetti più pomposi e sia quelli maggiormente ombrosi e la sezione ritmica contribuisce con estro e misura all’effervescente
cocktail sonoro.
La scalciante “
Better the devil you know” e la scanzonata “
Nonstop madness” continuano a “tranquillizzare” chi ancora non avesse apprezzato a dovere il lavoro del 2016, mentre tocca alle scosse
Zeppeliniane di “
Ready for the taking” riportare la memoria (magari con annesso pizzico di fatale nostalgia) degli astanti alla fine degli anni ottanta.
La frizzante “
Papertiger” prepara il terreno a “
Do your own stunts”, esempio assai efficace di passionalità non troppo “lacrimevole”, “
Gimme one more night” e “
Roar” rappresentano al meglio la
transepocale vocazione
anthemica dei musicisti nordici, così come, dall’altro lato, “
Get you on the run” e “
Conspiracy” solcano, risalendo fino a “
Scratch and bite” e (ancora una volta) al pregiato “
Organized crime”, la loro raffinata e istantanea vena drammatica.
Dopo una breve pausa, è tempo di
bis, garantiti da un’intensa versione dell’esotica “
Skies of Mongolia” e della sognante “
World of promises”, altro frammento “storico” (da “
Dreamhunter”) di una scintillante parabola creativa, ben lontana dall’apparire esaurita.
Last In Line.In sede di recensione del loro debutto avevo elogiato i
Last In Line per non aver indugiato in facili autocompiacimenti, ma era abbastanza prevedibile che qui, dal vivo, fosse proprio il loro prestigiosissimo
curriculum a prendere il sopravvento. In fondo, era questo che l’
audience desiderava da
Vivian Campbell e
Vinny Appice, onorando un
monicker tanto esplicito e celebrando al tempo stesso anche il mitico
Jimmy Bain, parte integrante del progetto e purtroppo scomparso poco prima dell’uscita di “
Heavy crown”.
Con un altro veterano come
Phil Soussan in sostituzione del compianto bassista scozzese, il gruppo asseconda le brame della stragrande maggioranza della platea e concentra la sua esibizione su una profusione di classici targati
R.J. Dio, rischiando di “inguaiare” il povero
Andrew Freeman, chiamato a un compito apparentemente proibitivo.
Ebbene, diciamo subito che il
vocalist americano riesce a disimpegnarsi in maniera abbastanza efficace, intridendo di disinvoltura, grinta e tecnica un confronto che sul piano squisitamente interpretativo e carismatico non può che vederlo soccombere.
Poco male, in realtà, riascoltare così tante pietre miliari dell’
hard n’ heavy è sempre un balsamo per l’apparato
cardio-uditivo, con quegli impetuosi e inconfondibili tamburi (gestiti da un “italiano”, come ci tiene a sottolineare l’inossidabile
Vinny …) che ti squassano l’anima e quella chitarra nuovamente libera di tranciare i sensi, lontana dalle pastoie dorate di un certo
Leopardo Sordo.
Di fronte a brani immortali come “
Stand up and shout”, “
Don't talk to strangers”, “
Evil eyes”, “
Egypt (The chains are on)”, o ancora ad autentici manifesti della cultura metallica come “
Holy diver, “
Last in line”, “
Rainbow in the dark” e “
We rock”, c’è poco da dire, se non ascoltare e godere.
Qualcosa di più, invece, si può aggiungere su “
Devil in me”, “
Starmaker” e “
I am revolution”, recenti esempi di un approccio alla “materia” piuttosto equilibrato tra “passato” e “presente” della musica
rock, capaci di non sfigurare nemmeno al cospetto “diretto” di cotanti monumenti sonori.
Un aspetto, quest’ultimo, che comunque sono quasi sicuro sia passato in secondo piano nelle valutazioni emotive del pubblico di stasera, davvero troppo coinvolto e felice di fronte ad una così maestosa e appagante “
lezione di storia”.
Foto a cura di Sergio Rapetti